Scrivere è di per sé un gesto sempre di natura anche politica, nel valore testimoniale che la scrittura porta con sé, nel suo esprimere una volontà di partecipazione al mondo e di testimoniarlo. Esistono poesie più o meno marcatamente, più o meno dichiaratamente politiche; più o meno immerse dentro un clima, o addirittura febbricitanti. La nuova raccolta di Nazim Comunale, Tu, ira, appena pubblicata da Convivio (pp. 72, euro 10,50), è una raccolta ad alta, altissima temperatura, appartenente al genere della poesia partecipativa del clima di un’epoca.

E VITTORINO CURCI, in particolare, nella sua prefazione individua questo clima, citando Giorgio Agamben, in un «capitalismo come religione», come forza che «non mira alla trasformazione del mondo ma alla sua distruzione» – annichilente e disperante, «non espiante ma colpevolizzante». Non c’è un verso di Tu, ira che non esprima un senso di smarrimento, di solitudine, perfino di orfanità rispetto a tutto ciò che un tempo rappresentava, nella cosmologia interiore dell’autore, un progetto, una speranza, forse anche solo un’illusione.

È dal tono delle singole poesie che lo si ricava, ma anche da certe precise parole che ricorrono e si ripetono, nei testi, quasi indizi volutamente disseminati sul campo, come tracce rivelatrici: e pensiamo ad esempio a «distanza», o a «disamore», o a «sparire». Anche «resa» è termine che compare spesso all’interno di questi versi: e se ne potrebbe trarre allora l’impressione di un venir meno definitivo di qualunque speranza, di qualunque ulteriore impulso a partecipare, a fare, a contraddire. Ma sarebbe un’impressione sbagliata, probabilmente, perché a smentirla sembrano concorrere almeno tre elementi. Il primo è la declinazione stessa di quel senso di smarrimento e di «distanza» in forma poetica – nella misura in cui valga quello che si diceva, e cioè che la poesia esprime di per sé una volontà partecipativa e di per sé presuppone una fiducia nel potere trasformativo delle parole e delle azioni che ne derivano.

IL SECONDO consiste nella presenza di un «Tu» al quale Nazim Comunale pare rivolgersi, ulteriore rispetto a quel diverso «Tu» rappresentato dal sentimento della rabbia cui allude il titolo – un «Tu» vero e proprio, in carne e ossa, che a sua volta genera e reclama fiducia verso nuovi futuri, nei quali la rabbia del presente possa trovare riscatto così come il «disamore» possa riprendere luce, colore. Ed è proprio lo sguardo verso il futuro, nonostante tutto, il terzo elemento che pare smentire un’idea di resa incondizionata e senza speranza: come a dire che la Storia non cessa mai, comunque vada, di scriversi e riscriversi, ogni giorno, al di là di qualunque delusione. Saranno altri, se non saremo noi; saranno gli altri che anche noi siamo stati.

Tu, ira è un lungo canto – che del canto, della nenia ha anche il passo, il ritmo – attraverso il quale Comunale sembra voler dirci, alla fine, che la Storia costituisce per sua natura un incessante succedersi di costruzioni e ricostruzioni, di illusioni perse e ritrovate, di sconfitte e di nuove immaginazioni.