La bella e partecipata manifestazione della coalizione Stop-Ttip di ieri a Roma è stata anzitutto un bel momento di democrazia in una vicenda, quella delle trattative sul Partenariato transatlantico per il commercio e gli investimenti, avvolte finora in un alone di riservatezza e opacità al dibattito pubblico. Se i documenti resi noti da Greenpeace Olanda – 13 dei 17 capitoli di testo «consolidato» – hanno contribuito a far circolare l’informazione su una trattativa che riguarda un’amplissima serie di materie rilevanti per l’economia, l’ambiente e la società, la manifestazione conclusa a piazza San Giovanni per opporsi al Ttip è, anzitutto, una richiesta di maggiore democrazia e trasparenza.

E, dunque, il contrario di quello che si capisce dai documenti che rappresentano lo stato della trattativa com’era a fine marzo. Su alcune materie come quelle ambientali, i negoziatori americani fanno più volte riferimento alla necessità di avere un parere dalle associazioni industriali, come quelle della chimica, tra le più interessate ad allentare le norme europee che sono ben più restrittive di quelle statunitensi. L’interesse dell’industria prima di tutto.

Il regolamento Reach, che come Greenpeace avremmo voluto ancora più severo, è stato più volte additato da parte americana come un inutile intralcio al commercio: in Europa le sostanze chimiche vietate sono oltre mille, negli Usa una manciata. L’obbligo di etichettatura per prodotti contenenti Ogm com’è noto è un altro esempio.
Il premio Nobel per l’economia Joseph Stiglitz ha messo da tempo in evidenza come il Ttip sia un modo per scavalcare le tutele europee per tutelare invece gli interessi di alcuni settori specifici dell’economia statunitense. L’agrochimica certamente è tra queste.

Il Presidente francese Hollande e il Cancelliere austriaco Faymann hanno rotto il fronte attaccando il Ttip. Oggi il ministro delle politiche agricole Maurizio Martina ha ribadito che non si abbasseranno mai le tutele in campo agroalimentare. Sarebbe carino che oltre a queste rassicurazioni se ne trovasse traccia anche nei testi, mentre in 248 pagine, ad esempio, non si trova mai citato il principio di precauzione, principio basilare nella normativa europea.

Come Greenpeace non siamo contrari agli accordi commerciali, purché siano garantite certe condizioni. Se, ad esempio, si mettesse insieme la parte migliore della normativa statunitense – ad esempio sulle emissioni di mercurio dalle centrali a carbone, sulle emissioni delle auto, sui composti chimici nei giocattoli dei bambini – assieme alla parte migliore delle norme europee, il quadro del dibattito potrebbe cambiare. I testi del trattato mostrano, al contrario, che la spinta statunitense è tutta dalla parte opposta ed è molto determinata.

Ma, proprio in questi giorni, Hillary Clinton in corsa per le presidenziali, rispondendo per iscritto a un gruppo di sindacati e associazioni ambientaliste ha ribadito che «mi oppongo all’accordo sul Ttp (quello trans-pacifico, ndr), sia prima che dopo le elezioni». L’intero approccio degli Stati uniti agli accordi commerciali va ripensato, aggiunge la Clinton.

Credo che dovremmo dire la stessa cosa noi dal versante europeo. E, certo, concludere trattati commerciali con gli Usa mentre i principali candidati alla prossima presidenza li attaccano appare un tantino bizzarro.

Sarebbe ora di fermarsi e consentire un dibattito più ampio e partecipato su che tipo di regole vogliamo avere negli scambi commerciali con gli Usa, e che tipo di futuro desideriamo per la nostra società e la nostra economia. Ma non sembra che partecipazione e democrazia siano in cima alle priorità di chi spinge, come il governo Renzi, per il Ttip.

*direttore di Greenpeace