L’incognita delle elezioni presidenziali statunitensi del 2016, la frattura nel Gruppo dei socialisti nel Parlamento europeo, il peso dell’elettorato tedesco in Europa: cosa determinerà il successo o il fallimento dei negoziati sul Ttip? Il «Trattato transatlantico» sta spaccando in due il Vecchio Continente tra est e ovest e il 10 ottobre, da Berlino, scatta la settimana internazionale di mobilitazione contro l’accordo.

25 anni fa 5 giornalisti, Belén Balanyá, Oliviér Hoedeman, Erik Wesselius, Adam Ma’anit, Ann Doherty pubblicano Europe.Inc, un libro in cui denunciano i rapporti tra le grandi corporation e le politiche dell’allora nascente Unione europea. Una manciata di fondazioni private, tra Olanda e Stati uniti, decidono di sostenere il lavoro dei giornalisti. È così che nasce il Corporate Europe Observatory (Ceo), inizialmente un network lasco di giornalisti che indaga il potere del grande business negli ingranaggi istituzionali europei. Presto però, la rete si trasforma in un vero e proprio osservatorio sul lobbying a Bruxelles.

Lora
Lora Verheecke

Oggi il Ceo conta una decina di impiegati tra giornalisti e ricercatori. Tra questi, Lora Verheecke, 31 anni, franco-olandese ex-vice Presidente di Oxfam Francia. Verheecke ha lasciato il suo posto alla Confederazione sindacale internazionale (Csi) per occuparsi del Trattato transatlantico sul commercio e gli investimenti (Ttip) al Ceo.

«I sindacati non erano abbastanza critici rispetto al Ttip», è una delle prime cose che mi dice quando la incontro. Siamo seduti in un bistrot vicino al canale Bruxelles-Charleroi che costeggia il centro della capitale belga a nord ovest, esattamente dalla parte opposta di dove si trovano Parlamento e Commissione europea.

Lora Verheecke, quali sono stati i contenuti dell’ultimo turno di negoziazioni del Ttip svoltosi a luglio 2015?
Stati uniti ed Europa cercano un compromesso sulla protezione delle «indicazione geografiche»: non vogliono che la controparte produca alcuni prodotti tipici. Poi si è discusso della regulatory coperation: ognuno vuole monitorare la produzione legislativa dell’altro. Infine, non è mancato l’Isds (Investor-State Dispute Settlement), il meccanismo giuridico per la risoluzione dei contenziosi stato-imprese.

A che punto siamo giunti nelle negoziazioni sul Ttip?
Siamo a metà percorso, le negoziazioni vanno a rilento. Non se ne farà nulla prima del 2017. E in mezzo ci sono le elezioni americane…

Che ruolo hanno?
Potremmo ritrov«arci con un presidente che non appoggia il Ttip: alcuni repubblicani sono contro gli accordi di libero scambio.

Chi esattamente?
Il Tea Party.

Il Tea Party non schiererà mai il Presidente degli Usa…
Però potrebbe avere più influenza. La politica interna diventerebbe una priorità. Per gli Usa è più importante l’accordo commerciale appena siglato con l’area del Pacifico (Trans-Pacific Partnership, detto anche Ttp).

E se vincesse Donald Trump?
Trump non si è esposto sul Ttip.

Il 2017 è anno di elezioni in Francia e Germania e il Ttip verrà ratificato dai parlamenti nazionali…
Non è detto. Gli “investimenti” sono una prerogativa comunitaria e, sebbene il Ttip vada oltre questa area di policy, qualcuno potrebbe farcelo rientrare: conterebbe solo il voto del Parlamento europeo.

Come sono schierati i gruppi politici a Bruxelles?
I socialisti sono divisi: durante il voto sulla risoluzione Ttip di luglio 2015, i belgi, i francesi e gli inglesi hanno votato contro, così come il Gue-Ngl, i verdi e la destra radicale. È soprattutto il Paese di origine dei deputati che spiega il voto: i partiti dell’est sono a favore. Ma alla fine è probabile che il testo passerà anche per le camere nazionali.

Cosa succederebbe se un Paese votasse contro?
Il Ttip non passerebbe.

Secondo dati Eurobarometro solo il 39% dei tedeschi è a favore del Ttip, perché?
La Germania è incappata nell’arbitrato dell’Icsid (Centro internazionale per il regolamento di controversie relative ad investimenti), il tribunale che si costituisce ad hoc ogni volta che c’è un contenzioso tra investitore e stato nazionale, un prototipo dell’Isds. Lo stato tedesco è stato chiamato in causa dalla Vattenfall AB perché, dopo il disastro di Fukushima del 2011, Angela Merkel aveva deciso di chiudere gli impianti nucleari dell’azienda. La Germania spese centinaia di dollari all’ora per difendersi in tribunale. I tedeschi hanno capito con cosa avessero a che fare.

Meg Kinnear, segretaria generale dell’Icsid ha affermato che i tribunali privati internazionali non giudicano le scelte di un governo, ma valutano se un contraente ha infranto un accordo. Che c’è di sbagliato?
Oltre a un effetto diretto, ce n’è anche uno indiretto. Philip Morris ha denunciato il governo australiano per aver approvato una legge che limitava il branding sui pacchetti di sigarette. La Nuova Zelanda, vicina di casa, ha sospeso un progetto di legge simile per non affrontare lo stesso problema: si chiama regulatory chill.

Chi ci guadagna di più dall’Isds?
I grandi studi legali come, per esempio, la White & Case: hanno un interesse enorme. Hanno creato una propria associazione, la Efila (European Federation for Investment Law and Arbitration), che fa lobbying per il Ttip e l’Isds.

Negli Stati dell’Europa centrale, molte imprese si oppongono al Ttip. Perché?
Le piccole e medie imprese europee esportano pochissimo verso gli Stati uniti. Per questo le Pmi austriache, belghe e tedesche si oppongono.

Secondo la Commissione il Ttip sostiene le Pmi…
Anche la Cbi (Confederation of British Industry) ha contestato la posizione della Commissione durante un incontro. Tutti i benefici calcolati sono ipotetici.

Perché la Commissione dovrebbe mentire?
Vendere le politiche come «funzionali alle piccole e medie imprese» è una strategia tipica per coprire gli interessi delle grandi corporation e convincere il pubblico.

Ma la Commissione europea «agisce nell’interesse generale dell’Unione europea»…
Su 597 incontri organizzati dalla Commissione per preparare il negoziato con gli Usa, nell’88 per cento dei casi si è trattato di colloqui con rappresentanti delle lobby del business. Ogni venti incontri con il mondo corporate, ce n’è stato uno con gruppi di interesse pubblico (sindacati, ong, ecc.). Si potrebbe affermare che le istituzioni debbano farsi un’idea di tutte le parti in gioco. Ma molte posizioni della Commissione vengono direttamente dalle lobby. La stessa City Uk (organizzazione indipendente che promuove la City di Londra) ha detto che il capitolo del Ttip sulla finanza è un copia e incolla della loro brochure. Abbiamo sottomano scambi e-mail della Commissione in cui viene affermato che «si deve andare incontro al mondo del business, ma in modo discreto». Il grande business non influenza le negoziazioni: detta l’agenda.

L’Italia si regge sulle Pmi, ma l’opinione pubblica è a favore del Ttip.
In Italia non c’è consapevolezza pubblica. E poi il “commercio” non è sexy: non fai ascolti tv con il Ttip. Anche il Medef, la Confindustria francese, ha chiesto alla Commissione europea come possa garantire che 19 milioni di Pmi riescano a reggere la concorrenza.

Eppure commercio e concorrenza sono stati il propulsore della crescita delle nazioni…
Nessuno vuole fermare il commercio. Gli investimenti diretti tra Ue e Usa ammontano già a diverse migliaia di miliardi di euro. La crisi ucraina, il mercato interno che non funziona e le debolezze dell’Euro dovrebbero essere le nostre priorità. Il Ttip allargherà ancora di più gli squilibri nel nostro continente.

I numeri della Commissione: 120 miliardi di crescita per l’Ue e 545 euro a famiglia. Non vale la pena?
Anche se la stima totale fosse corretta, è sbagliato dividerla per il numero di famiglie. Solo una parte dell’economia europea guadagnerà dal Ttip: non sarà un buon accordo per Italia, Est Europa e Lituania, per esempio.

Perché allora nei Paesi dell’est approvano il Ttip?
Quando critichi un trattato di libero scambio con gli Usa, in alcuni luoghi si pensa che si critichino gli Stati uniti in quanto tali.

La storia gioca ancora un ruolo…
Assolutamente sì.

C’è chi dice che il Ttip abbia un valore geopolitico.
È vero, ma potremmo anche pensare di sviluppare relazioni con altri paesi come i Brics.

Potrebbero pendere il posto degli Stati uniti nella nostra bilancia commerciale?
Probabilmente no, ma si potrebbe provare a diversificare l’export.

Cosa succede tra il 10 e il 17 ottobre in Europa?
È la settimana internazionale di mobilitazione contro il Ttip e il Ceta. Per il 10 ottobre i sindacati tedeschi hanno indetto una mobilitazione a Berlino per fare pressione sulla Spd: sono attese circa 500mila persone. Tra il 15 e il 17 ottobre, a Bruxelles ci saranno conferenze e lanceremo proposte per superare il Ttip e costruire un’Europa solidale.

Qual è la posizione della Spd sul Ttip?
La linea di partito è a favore, ma sempre più deputati regionali e sindaci stanno alzando la voce contro l’accordo.

Insomma i tedeschi potrebbero far saltare il banco con le elezioni del 2017…
Chissà…

Come al solito la Germania decide per tutti?
Non sottovaluterei gli elettorati di Spagna e Grecia: non è stato raggiunto un accordo soddisfacente per la protezione di alcuni prodotti tipici nel quadro del Ceta.

Crede che la politica possa ancora guidare l’Ue e influenzare l’economia globale?
La politica ha dato le regole all’Ue e può anche cambiarle. Francia e Germania hanno un peso particolare. Il segnale che si darà sul Ttip avrà una valenza più ampia che riguarda i processi di globalizzazione.

Che idea si è fatta del dibattito sul Ttip in giro per l’Europa?
Se il Ttip venisse legato alla quotidianità, le persone capirebbero di cosa si tratta. In Spagna il Ttip viene legato sempre di più al tema dell’austerity, in Germania alla sicurezza alimentare e in Francia alla protezione del settore culturale.

Sembra quasi un consiglio ai partiti…
Non si tratta solo di convincere i partiti. In Belgio anche parte della società civile si sta mobilitando. Quando la gente vede che non sono i soliti sospetti fare resistenza, si chiede il perché.

Ci sarà un Ttip alla fine?
Spero di no.

In caso contrario basterà trasferirsi negli Stati Uniti…
L’accordo non sarà un toccasana neanche per gli Usa. Anche loro hanno motivi per essere spaventati. Lo scontro non è tra «noi» e «loro».

Tra chi allora?
La domanda principale rimane: dopo il Ttip avremo ancora la capacità di regolamentare l’economia? Potremo ancora decidere quali siano le nostre priorità politiche: è il commercio? È la lotta alla disoccupazione? È l’abbattimento della povertà? Lo scontro non è tra due continenti, ma tra il grande business e l’interesse pubblico all’interno di ognuna delle nostre società.