Zan, Killing, il nuovo attesissimo film di Tsukamoto Shin’ya, lascia il Lido e il concorso di Venezia senza neanche un premio di consolazione tra lo scoramento dei tanti cinefili che vedendo questo chambara (film di cappa e spada in salsa teriyaki) iper accelerativo ma classico al contempo avevano creduto di aver trovato il Leone d’Oro dei loro sogni. Mokunoshin Tsuzuki (Sosuke Ikematsu) è un giovane ronin (samurai errante senza padrone e onore), ma non sa uccidere e ci vorrà l’incontro con lo ieratico Sawamura (Tsukamoto) per trasformare il suo destino in un tracciato di morte che prelude agli orrori di Nobi, in una sorta di chase film a piedi ai limiti della resistenza corporea. Sotto l’egida di Maria Novielli di Ca’ Foscari, autorità indiscussa tra gli studiosi di cinema orientale e tsukamotista tra le più competenti, avviene un’intervista in punta di piedi, in perfetto stile Tsukamoto.

Per la prima volta guardando un suo film ci sono venuti in mente grandi classici come «Rashomon» o «I sette Samurai» invece del cinema di Tsukamoto stesso. Crede che sia cambiato qualcosa nel suo rapporto con il cinema?

Per molto tempo ho continuato ad indagare la relazione tra l’individuo e il contesto metropolitano restando in una sorta di zona franca, di nicchia esclusiva, di cui ero il solo abitante. Il riferimento al mio cinema, per me che lo facevo come per chi tentava di interpretarlo, era il solo possibile perché ero il solo a farlo. Successivamente ho cercato di guardare fuori da quei confini, di riflettere sul più vasto contesto in cui la città galleggia quasi fosse una isoletta sperduta in un oceano. Su questa parte di oceano si sono misurati molti altri registi e quindi è inevitabile confrontarsi con tracce, segni e temi che appartengono anche ad altri autori, e forse diventa più facile ritrovarne le influenze remote e inconsce. Il passaggio non avviene sempre a un livello cosciente. Per esempio il mio personaggio è quello di un insegnante che arriva al sacrificio di sé pur di trasmettere un insegnamento fondamentale. Anche se non è questo il tema del mio film questa figura è centrale nel cinema di Kurosawa, che è un regista che amo profondamente. Quindi, anche se a un livello non intenzionale non posso escludere che questa caratterizzazione del personaggio abbia risentito in qualche modo di queste memorie cinematografiche inconsce.

L’inizio nel fuoco sancisce già dall’incipit la continuità di un discorso ininterrotto riprendendo il fuoco distruttore finale di «Nobi»…

Ci sono relazioni molto strette tra i due film, in un certo senso le domande interiori che si pone individualmente il personaggio di Zan sono le stesse che in Nobi erano declinate nella loro dimensione collettiva, di fatto storico, di tragedia plurale. Ho cercato di semplificare il livello spostando l’interrogativo morale dalla dimensione macroscopica della storia a quella microscopica dei singoli. La domanda fondamentale di Zan «a cosa serve? Qual è il senso dell’uccidere?» è in fondo la «domanda mancante» di Nobi. Quando gli uomini smettono di cercare la risposta a questa fondamentale domanda salta ogni confine e gli umani si trasformano nei mostri cannibali che ho messo in scena nel film precedente. Per quanto il finale vada verso la tenebra, verso un aumento del grado di violenza, Zan si colloca in una fase precedente, in cui esiste ancora una possibilità di scelta, che in Nobi è già svanita, perché esistendo ancora la domanda esiste anche la possibilità di darle una risposta diversa, scongiurando la violenza.

In mezzo a tanta violenza ritorna più volte l’immagine delicata delle coccinelle… lo scopo è chiaramente metaforico…

L’immagine delle coccinelle, che devono risalire l’intero tronco, conquistare la cima dell’albero e solo allora spiccare il volo, ha a che fare col destino dei samurai, spinti da un’immane ambizione e da un senso dell’onore sovrumano, a tentare l’ardua ascesa tra i ranghi della loro casta. Proprio come le coccinelle molti cadranno dal tronco e altri moriranno lungo il cammino, ma quei pochi che riusciranno a elevarsi sino alla sommità potranno spiccare il volo, elevarsi al cielo.

Mokunoshin, il giovane protagonista, sconvolto dall’assassinio appena commesso, sul finale avvolto di tenebra è diventato identico alla nera figura oscura del proprio sogno.

In verità quello del sogno è il bandito sfuggito alla furia di Sawamura e nel sogno Mokunoshin teme che stia andando ad avvisare i compagni per tornare in forze e compiere una strage, per questo lo sogna come incubo. La tua interpretazione però mi piace e l’idea che sogni sé stesso nell’eventualità di diventare mostruoso come i banditi effettivamente funziona, perché è vero che avendo imparato ad uccidere Mokunoshin è diventato uguale a quegli assassini che tanto temeva e quindi l’assimilazione sul piano visivo si giustifica anche su quello morale. Diciamo che ha sognato il bandito, come pensavo io, ma in un certo senso ha sognato anche sé stesso, come volevi tu.

C’è molto lavoro da attore nel personaggio di Sawamura, una ricerca espressiva di registri attorici più sottrattivi del solito, una compostezza solenne del recitare che non avevamo mai visto.

Cercavo essenzialmente l’equilibrio tra gentilezza e forza. Il personaggio si relaziona agli altri in maniera solo apparentemente gentile mentre in realtà nasconde una forza e una durezza sconfinati. La sua mitezza deve risultare solo apparente, perché in fin dei conti lui è un personaggio di morte, che per una ragione o per l’altra porta comunque la violenza. È da questa sintesi di mitezza e durezza che nasce quel registro recitativo così concentrato, ieratico.

Un altro film in digitale, un mezzo che ormai sembra diventato la cifra irrinunciabile della nuova estetica tsukamotiana…

Non attribuisco un particolare significato estetico al digitale, e non credo costituisca una alternativa alla pellicola, la scelta ha innanzitutto ragioni di tipo economico. La Kaijyu Theater è una casa di produzione minuscola e il digitale ha l’enorme vantaggio del costo zero. Quindi lo uso perché è conveniente. Se però dovessi dire quali vantaggi ho potuto notare nel digitale ti direi che permette un grado maggiore di naturalezza sia agli attori che a chi opera le riprese. Il costo ridotto, infatti dà modo di girare molto più materiale, anche non previsto, o di rigirare le scene più volte, e questo permette di catturare momenti o espressioni spontanee, magari mentre l’attore non sta recitando, e riduce notevolmente la pressione psicologica dovuta al timore di sbagliare, col risultato che le performance risultano più naturali, prive di tensioni.