Tornato ad Atene, da Bruxelles, Tsipras ha rimesso nelle mani del popolo greco la decisione sulla proposta dei creditori. Il 5 luglio un referendum, che dovrà essere prima ratificato dal parlamento (ma Syriza ha i numeri per approvarlo), stabilirà se la Grecia accetterà o meno le ultime proposte delle «istituzioni».

Tsipras, come altri ministri, si è già espresso per il «no» in modo chiaro, ma il governo farà decidere alla popolazione greca. La decisione di Alexis Tsipras è giunta al termine di una giornata convulsa, di grande tensione, proprio quando sembrava decisivo l’incontro di oggi, tra pessimismo e scenari apocalittici.

Se sarà no, si va verso uno scenario di default controllato, ma senza uscire dall’euro. A quel punto saranno i creditori a dover accettare, ingoiando un boccone amaro, o sbattere la Grecia fuori dall’euro.

Ieri, infatti, dopo l’ennesimo vertice con Merkel e Hollande, nell’ennesima giornata tesa vissuta a Bruxelles, il premier greco Alexis Tsipras aveva respinto l’ultima offerta dei creditori specificando che Atene non avrebbe accettato «ultimatum e ricatti». Il prestito di 12 miliardi fino a novembre, con un’aggiunta di 3,5 miliardi immediati del Fmi in cambio da subito delle riforme richieste (altra austerity) e di nessun accordo sostanziale sul debito è stato giudicato da Syriza una trappola che non scioglie i nodi e che, molto probabilmente, avrebbe portato il governo a trattare un terzo memorandum a Natale con un paese sempre in ginocchio e senza più consenso sociale e politico.

Soprattutto dopo i recenti tentativi di Bruxelles nel sondare altri partiti politici, un tentativo di golpe soft, una strada che le «istituzioni» storicamente conoscono bene: comprare la controparte per renderla malleabile oppure scaricarla con un governo tecnico di unità nazionale.

Tsipras ha detto di no, confermando le parole del ministro delle finanze Varoufakis, che aveva definito «non praticabile» l’accordo e che oggi dovrà affrontare un durissimo Eurogruppo (l’undicesimo sulla Grecia), e una volta giunto ad Atene ha convocato un consiglio dei ministri d’emergenza per prendere le decisioni immediate dopo il no a Bruxelles. La questione a questo punto, non ha a che fare con la ragioneria e l’economia, bensì con la politica.

Mentre scriviamo la riunione è ancora in corso. Ma Atene, molto probabilmente, si avvicinerà al default con la volontà di rimanere dentro l’euro. Salvo sorprese, sicuramente saranno drammatizzati i toni e attuate tutte le misure necessarie a bloccare i movimenti di capitali inclusi i bancomat. Il debito pubblico greco è detenuto, all’80%, da fondi Ue, paesi membri, Bce e Fmi. Perciò la palla per ora è soprattutto nel campo dell’Europa che all’Eurogruppo di oggi dovrà decidere se accettare la «ribellione» greca e controllare gli esiti di un inevitabile default successivo al Grexit (ipotesi caldeggiata ieri dal premier britannico Cameron, che l’ha perfino «consigliato» a Merkel).

Oppure negoziare su basi diverse . Atene infatti non ha alcuna intenzione di annunciare motu proprio un’uscita dalla moneta unica, che si scontrerebbe con le promesse elettorali e con la volontà popolare: più probabile che ci possano essere giornate di «preparazione» a un’uscita, sempre che sia causata dai creditori.

Che l’aria sia cambiata ieri, in un turbine di dichiarazioni a seguito del supposto «no» greco, lo hanno dimostrato fonti europee che hanno cominciato a parlare di un «piano B», una sorta di «quarantena economica» che dovrebbe prevedere un default controllato. Draghi e i creditori sanno che quei soldi sono ormai persi (il 30 scade la doppia tranche al Fmi) e devono riflettere se continuare a sostenere il sistema finanziario, mantenendo la Grecia all’interno dell’euro dando però fiato ai «ribelli», vedi Podemos (a novembre ci saranno le elezioni in Spagna), oppure dare la vittoria ai falchi alla Schäuble, con una «cacciata» della Grecia che potrebbe scatenare un indesiderato effetto domino.

L’ipotesi del default controllato, dunque, politicamente potrebbe essere l’opzione più saggia, anche se, gioco forza, segnerebbe un successo per Tsipras, perché dimostrerebbe la possibilità politica di ristrutturare il debito con la trojka. Un momento storico che, così come un’eventuale «Grexit», potrebbe dare vita a fenomeni poco graditi ai creditori. La questione è dunque puramente politica e comporta riflessioni che coinvolgono tutta l’Europa.

Qualsiasi decisione verrà presa, l’unione economica come l’abbiamo concepita fino ad oggi, non sarà più. Del resto, il «contro piano» presentato con presunzione dalle «istituzioni» (con quelle correzioni in rosso, sottolineate anche dalla stampa internazionale, come il Guardian, che al contrario di certi commentatori nostrani, rispetta il fatto che un governo di sinistra possa dire di no alle imposizioni di chi fino ad ora ha scaraventato un intero paese in una crisi umanitaria senza precedenti) era parso fin da subito inaccettabile ai greci.

Nella serata di ieri Tsipras è tornato ad Atene per informare il governo e il paese sullo stallo dei negoziati, mentre venivano rilasciati alcuni stralci di un documento prodotto da Atene, nel quale veniva ribadito il «no» all’accordo proposto.

Secondo il governo greco si tratterebbe di un’intesa che porterebbe ad una nuova «catastrofe umanitaria». «Lo sterminio del nostro popolo», secondo il ministro del Lavoro. Il governo greco, si legge, «non ha il mandato popolare per accettare simili richieste».

Nei 7 punti del documento di Atene si legge che «la proposta da parte delle istituzioni comporterebbe profonde misure recessive, che faranno male al tessuto sociale già ferito del Paese, come pre-condizione per cinque mesi di finanziamento, che in ogni caso, è stato giudicato del tutto inadeguato. Se questa proposta venisse accettata dal governo e dal parlamento, la popolazione e i mercati dovrebbero affrontare altri cinque mesi di ulteriore austerity, che porterebbe ad un altro negoziato in condizioni di crisi. Questo è uno dei motivi per cui la proposta delle istituzioni non può essere accolta». Lo scopo dei creditori è chiaro: strozzare per cinque mesi il paese, per portarlo ad un negoziato in condizioni migliori (per loro).

E mentre in serata la Reuters, citando fonti europee, sosteneva che in realtà le parti sarebbero più vicine di quanto sembri, altre fonti testimoniavano una rottura che appare insanabile. L’infinito «gioco del cerino» iniziato cinque mesi, ormai è alle ultime battute.

L’Eurogruppo straordinario, fissato inizialmente alle 17, è stato anticipato alle 14, ma l’aria che tira è delle peggiori. Il pallino, in quella sede, ce l’avranno soprattutto Draghi e Angela Merkel, due figure che sulla difesa della moneta unica «costi quel che costi» hanno scommesso tutte le proprie carte.