Quello che sta succedendo attorno all’idea di costruire una lista Tsipras per le elezioni europee è importante e per certi versi inedito. Per la prima volta da molti anni c’è in Italia un progetto che potrebbe aggregare soggetti e organizzazioni spesso conflittuali tra loro, trascendendo la tradizionale area di riferimento della sinistra radicale di partito. Si va, tra promotori e interessati, dalla sinistra radicale (Rifondazione e Alba) a un’area tradizionalmente più vicina al centrosinistra (Barbara Spinelli), a organizzazioni di movimento solitamente avverse ai meccanismi della rappresentanza (Negri e Mezzadra, Globalproject), agli intellettuali di cui il manifesto ha pubblicato l’appello. La rilevanza che l’iniziativa può assumere, vista anche la fase di transizione del sistema politico italiano, è ulteriormente testimoniata dall’esito del congresso di Sel, che si avvicina all’ipotesi Tsipras soprattutto su pressione della propria base.

La novità è quindi importante. Non solo per la potenziale ampiezza dell’area dei promotori (e quindi degli elettori), ma anche perché la lista Tsipras potrebbe essere la prima vera sperimentazione di un modello di organizzazione innovativo e all’altezza delle trasformazioni della politica e della società, capace di unire le caratteristiche migliori della tradizione dei partiti di sinistra, dei movimenti sociali e dell’associazionismo. Se dei difetti dei primi si parla sempre, i secondi non ne sono immuni: leaderismo, carrierismo e autoreferenzialità ci sono anche nei movimenti e nelle associazioni. Per questo non ci può più accontentare della contrapposizione partiti/società. La lista Tsipras può essere uno strumento per andare oltre.

Proprio la teorica, ma realistica, importanza del progetto, rende ancora più decisivo che non si riproducano gli errori passati. Le esperienze che tutti richiamano, come esempi delle cose da non fare, sono naturalmente la Sinistra Arcobaleno e Rivoluzione civile. Ricordarne i limiti può quindi essere utile a cercare di non replicarli. Queste due liste erano nate sul terreno elettorale, cioè a ridosso delle elezioni e con lo scopo di eleggere una rappresentanza (per Gramsci, il fatto che i partiti nascano sul terreno elettorale è un segnale decisivo di una crisi sistemica della politica). Se questo obiettivo fosse stato raggiunto, difficilmente le due formazioni avrebbero avuto un futuro, viste le fortissime differenziazioni interne. In secondo luogo, entrambi i progetti sono nati attorno alla personalità di un leader (Bertinotti e Ingroia) al quale sono stati delegati (o che ha potuto monopolizzare) i processi politici interni.

La conseguenza di questi due elementi è che le due proposte erano liste elettorali prive di progetto politico e di base sociale, sia a monte (la partecipazione elettorale non era il frutto di un processo precedente) che a valle (militanti ed elettori non sapevano quale sarebbe stata la prospettiva del nuovo soggetto dopo le elezioni). Nessun tentativo elettorale funziona se non è preceduto da un processo politico-sociale reale, e se l’elettorato non percepisce che questo processo può crescere ulteriormente dopo le elezioni. Si prendano anche i casi di successi fulminei, come quelli di Forza Italia nel 1994 e del M5S nel 2013: è chiaro che alla base di entrambi c’erano strutture organizzative già molto consolidate, due imprese private e due leader notissimi. La sinistra radicale non può, e giustamente non deve, contare su queste risorse (denaro, infrastruttura organizzativa di tipo aziendale, notorietà mediatica del leader). Può solo surrogarle con le sue risorse tradizionali: la forza di attori collettivi organizzati, il conflitto, la convergenza di una pluralità di soggetti e istanze, la capacità di connettere forme diverse di azione e di mobilitazione.

Nel caso di Rivoluzione civile era stata poi esiziale la continua “guerriglia” simmetrica tra la componente partitica e quella intellettuale-movimentistica. Pensando a «Cambiare si può», l’esperienza poi “dismessa” da Rivoluzione civile: il Prc cercava, nelle assemblee territoriali, di massimizzare il proprio peso politico e le candidature di propri esponenti; gli intellettuali vicini ad Alba e gli esponenti dei movimenti (spesso ugualmente affascinati dalle candidature) hanno deciso di non partecipare a Rivoluzione civile nonostante un referendum interno avesse deciso il contrario. Le responsabilità dei fallimenti vanno equamente distribuite. Non basta eliminare l’interesse dei partiti ad eleggere un ceto politico per rendere democratico e orizzontale un processo.

Le possibilità di successo della lista Tsipras passano dal superamento di questi limiti. Alcuni di questi, però, sono già presenti prima che essa esista. La lista nascerebbe sul terreno elettorale, priva di un processo politico e sociale che la preceda; si organizza attorno a un leader al cui nome lega la propria esistenza (il fatto che il leader sia “transnazionale” non cambia la questione), e a cui, già in queste settimane, si appella di continuo perché dirima le controversie tra promotori. Ci si ostina anche nella contrapposizione partiti/società civile (da parte di esponenti di quest’ultima) ponendo veti e convenzioni all’esclusione.

C’è ancora (poco) tempo per provare a superare questi limiti. Soprattutto, sarebbe importante che i promotori comunicassero l’idea di un progetto politico di lunga durata, il cui futuro non è legato all’esito delle europee. Non ci sono più i margini per suscitare aspettative che si chiudono in poche settimane. Se la lista Tsipras non può, ormai, essere l’esito di un processo politico già avvenuto, può prefigurare il futuro, dicendo con chiarezza che le elezioni europee non sono solo uno scopo, ma anche un mezzo per costruire un’organizzazione politica innovativa, che punti a durare nel tempo e a sostituire – proprio come ha fatto Syriza in Grecia – l’egemonia del riformismo liberista nel campo della sinistra. Non a bilanciarla, a sostituirla.