Peccato che i maestri della sinistra non riescano a cogliere la novità vera dell’operazione Tsipras, che ritengo sarà comunque compresa e largamente premiata dagli elettori domenica. Mi riferisco all’articolo di Asor Rosa (il manifesto, 21 maggio), il quale parla di “larghe intese” con il M5S lasciando intendere che quella sarebbe una buona ragione per non votare “L’Altra Europa per Tsipras”.

D’altra parte Asor Rosa un paio d’anni fa aveva avuto modo di antipatizzare con il movimento per i beni comuni pasticciando soprattutto con la dottrina politica ed esso sottostante, proclamando la propria convinzione statalista e rifiutando (in compagnia di diversi altri compagni figli della stessa stagione) ogni ipotesi di equidistanza fra il comune, il pubblico ed il privato. Di acqua da allora ne è passata sotto i ponti. Quello Stato, che tanta sinistra ancora considera più “amico” del mercato, mostra quotidianamente la sua faccia autoritaria e brutale, la sua frustrata impotenza, la sua inadeguatezza a farsi carico dei problemi messi sul tappeto dall’attuale condizione del mondo. Lo “Stato amico” (non era così negli anni Settanta quando il debito era interno) è in balia dei suoi creditori, vende disperatamente i gioielli di famiglia mentendo per giunta, come ogni buon tossico o ludopatico, sulla natura di quanto sta facendo. Solo nelle ultime settimane la privatizzazione di beni pubblici sovrani come gli slot aerei (Enav) e le Poste è stata gabellata come azionariato popolare dalla comunicazione di regime. Lo Stato amico perseguita i militanti No-Tav, i compagni che lottano per implementare in concreto e non con le chiacchiere da salotto buono il diritto costituzionale all’ abitazione per tutti.

Oggi l’onda lunga del referendum sui beni comuni si presenta sotto le sembianze della lista Tsipras provando ad andare in Europa per far sentire, grazie al megafono del parlamento di Strasburgo, la voce di chi ha capito che la partita si può vincere soltanto con uno stravolgimento profondo degli assetti istituzionali dominanti, ponendo la questione democratica là dove essa può essere determinante, ossia nei meccanismi istituzionale dell’economia. Da Strasburgo ci renderemo conto una volta per tutte che è proprio la contrapposizione fra privato e pubblico la grande ideologia che ci fa perder tempo discutendo di modalità di votazione del Senato o di altre questioni altrettanto inutili. Abbiamo pagato lo scorso anno quasi 9 miliardi di servizio ad un debito in massima parte giuridicamente odioso; abbiamo privatizzato beni per altri 140 miliardi; abbiamo trasferito 11 punti di Pil dal lavoro al profitto, grazie alle politiche neoliberali, che sono un altro centinaio di miliardi; il Fiscal compact ed il pareggio di bilancio in Costituzione, che sono parte dello stesso deliberato processo di robotizzazione dell’Europa iniziato con l’Atto Unico del 1986, aggiungerà un’altra cinquantina di miliardi al salasso che il nostro paese dovrà pagare ogni anno.

Facendo il conto della serva, noi ogni anno dovremo pagare il valore intero di tutte le privatizzazioni fin qui fatte! Quanta argenteria da vendere avrà ancora il nobile Stato decaduto?

Col Referendum 2011 ci siamo espressi in maggioranza contro privatizzazioni e grandi opere. Quel referendum ha messo lo Stato sul banco degli imputati e ha fatto capire a chi poteva o voleva farlo che lottare contro le privatizzazioni non significa restaurazione del pubblico statalista e burocratico.

Poi ci siamo scontrati con la traducibilità del voto referendario in rappresentanza politica (Alba; Cambiare si può). Successivamente abbiamo perso la grande occasione di capire per tempo che la partita per il Quirinale era davvero costituente e che così andava giocata. Non è tuttavia stato un caso che il voto pentastellato e di sinistra fossero confluiti su una figura prestigiosa, rappresentativa e genuinamente garantista come quella di Stefano Rodotà.

Non sono larghe intese politiche quelle fra Tsipras e Grillo. E’ piuttosto la presa d’atto di una natura costituente di questa fase, che è dettata dalla catastrofe ecologica e sociale determinata dal modello di società che ancora il potere costituito si ostina a chiamare crescita.

Tanto l’Altra Europa, quanto M5S hanno capito che non esistono alternative alla ridiscussione radicale dei meccanismi che dall’Atto Unico del 1986 hanno trasformato l’Europa in un robot, un meccanismo infernale che trasforma in capitale ogni bene comune. In questo senso entrambe, ciascuna con la sua assai diversa connotazione politica, portano la discussione sull’Europa a livello costituente. L’Altra Europa e il M5S hanno capito che oggi abbiamo troppo capitale e troppo pochi beni comuni e che invertire la rotta significa inventare nuove istituzioni del comune, partecipate in modo diretto, che abbiano finalmente la forza ed il coraggio di trasformare il primo nei secondi.

Condividere la necessità costituente non significa essere uguali e neppure simili. Sostenere questo ha lo stesso senso di considerare uguali Einaudi e Togliatti, solo perché insieme parteciparono allo stesso sforzo costituente dopo la catastrofe del fascismo. La differenza politica è assai rilevante e sta proprio nel garantismo, nell’accoglienza, nell’orrore per le manette nel desiderio di utilizzare la ragione più della pancia.