La Grecia è stata trattata troppo duramente, ora lo riconosce anche Jean Claude Juncker. A nove anni dall’ingresso della Troika ad Atene, si iniziano a sentire i primi forti «mea culpa», che tuttavia non possono più incidere sulla realtà dei fatti. Tutti sanno che il pil della Grecia, nel corso della crisi, è crollato del 25%. E che la disoccupazione, nel 2013, ha toccato la punta massima del 27%.

Alexis Tsipras, nel 2015, ha tentato di dare una «sterzata» e di far prevalere la ragione sulla volontà punitiva dei creditori. Gli è stato detto che non sarebbe mai stato possibile cambiare quanto già deciso, e che non fosse neanche da prendere in considerazione l’ipotesi di una conferenza per il taglio del debito. Anzi, il leader di Syriza si è trovato sotto ricatto, a dover scegliere tra austerity e uscita forzata, l’espulsione del paese dall’Euro.

Non è un caso che il rapporto dell’Europarlamento sul ruolo della Troika, abbia sottolineato che i suoi membri «hanno agito più come macellai, che come chirurghi» e che in tutti i paesi che hanno dovuto sottostare ai cosiddetti piani di salvataggio «si è verificato uno tsunami sociale». Per la Grecia, si ricorda che la disoccupazione giovanile nel 2012 ha superato il 50%. In molti settori professionali, come quello del giornalismo, i disoccupati hanno toccato la stessa percentuale.

Per non parlare della «morte» dei contratti collettivi di lavoro, che hanno permesso agli imprenditori di mascherare orari full time in finti part time. E di imporre contratti aziendali o personali, con perdita di diritti acquisiti, tagli di stipendi sino a oltre il 30% e possibilità di tenere i dipendenti sotto continuo ricatto. Una realtà che il governo di Syriza sta provando a cambiare, con la reintroduzione della contrattazione collettiva.

Malgrado i continui scioperi, la Troika ha insistito perché venissero votati 14 tagli delle pensioni, riducendo quasi della metà i redditi degli anziani. Tuttavia, dopo l’uscita dal memorandum di austerità lo scorso agosto, Tsipras si è rifiutato di applicare l’ennesimo taglio, e dopo un lungo braccio di ferro è riuscito a spuntarla.

Quanto alla realtà quotidiana e più immediatamente percepibile delle città greche, basti citare l’interminabile fila di serrande abbassate, di negozi costretti a chiudere, che molti osservatori hanno paragonato solo ai peggiori momenti dell’America latina. Una conseguenza diretta del crollo verticale del potere di acquisto dei cittadini, da cui ora il paese sta tentando di riprendersi.

Sono stati spinti al fallimento il panificio più famoso della Grecia, Katselis, la firma Fokàs, che produceva vestiti e scarpe dal 1936 e contava 1.500 dipendenti, la nota fabbrica di mobili Neoset e dieci famose catene di elettrodomestici. Il capitolo dei suicidi è il più drammatico di questa crisi, sadica e per molti versi assurda.

Una storia per tutte riassume la disperazione umana a cui hanno portato le scelte dissennate imposte dalla Troika: un farmacista in pensione, poco dopo lo scoppio dello «tsunami sociale» e i primi tagli delle pensioni, si è nascosto dietro un albero nella centralissima piazza Syntagma e si è tolto la vita. In un breve messaggio ha spiegato che, dopo una vita di lavoro e abnegazione, la sua dignità non gli permetteva di continuare a sopravvivere pesando sulle spalle dei figli.

Si calcola che dal 2010 al 2015 i suicidi siano stati oltre 3mila. Un dato probabilmente sottostimato. Storie di famiglie distrutte che nessuna autocritica potrà far dimenticare.