Ormai non si tratta più di mere provocazioni. Ora è guerra aperta: tra Erbil e Baghdad a parlare sono le armi che non risuonano più solo a Kirkuk, dove da settimane milizie sciite e peshmerga si contendono le ricchezze petrolifere della zona.

Nel mirino c’è Mosul, seconda città irachena, roccaforte sunnita e centro economico del paese. Per settimane i peshmerga hanno ripetuto di non voler prendere parte alla liberazione della città se non in sostegno all’esercito iracheno. A quanto pare non è così: dopo aver circondato Mosul da Sinjar, a ovest, e da Erbil, a est, i kurdi iracheni hanno aperto le porte alle truppe di terra turche. Centocinquanta soldati, trenta carri armati, artiglieria pesante: sono arrivati per aiutare a liberare Mosul dall’Isis, ha detto ieri il colonnello kurdo Nahram al-Dosoki all’agenzia Al-Araby al-Jadeed.

Il premier al-Abadi ne ha chiesto l’immediato ritiro: «Sappiamo che le forze turche sono entrate in Iraq, presumibilmente per addestrare gruppi di irachene, senza l’autorizzazione delle autorità federali. Una violazione grave della sovranità irachena».
Secondo quanto riportato dai peshmerga, i turchi (gli stessi che abbattono jet stranieri se violano il proprio spazio aereo, ma non disdegnano di inviare le proprie truppe nei paesi vicini) si sarebbero posizionati a Bashiqa, area di confine tra la regione autonoma kurda e il territorio controllato dallo Stato Islamico, nella notte tra giovedì e venerdì. Venti km da Mosul: proprio qui due settimane fa il generale Afandi, ex ministro dei Peshmerga, assicurava al manifesto di non avere alcun interesse per Mosul.

Su queste terre, ripete Erbil, i turchi addestreranno i kurdi a seguito di un accordo siglato un mese fa, la stessa giustificazione data dal premier turco Davutoglu: «Il campo di Bashiqa è una struttura di addestramento per sostenere le forze locali contro il terrorismo. Non stiamo preparando operazioni di terra e siamo pronti a supportare anche l’esercito e la polizia iracheni». Quell’accordo però non si limitava all’addestramento: secondo il quotidiano turco Hurriyet, prevede anche la creazione di una base militare turca nella zona.

Baghdad è furiosa: l’ingresso dell’esercito turco è minaccia all’unità di un paese che si sta già sfaldando. La presenza turca in Iraq non è una novità: dalla fine di luglio Ankara bombarda le montagne di Qandil, a nord, per stanare i combattenti del Pkk. Al-Abadi protestò subito, nel totale disinteresse della comunità internazionale che ha dato man forte al sultanotto Erdogan.

Stavolta però l’interventismo turco non va ad ampliare solo le distanze tra Erbil e Baghdad: è l’ennesima sfida lanciata da Erdogan e dalla Nato all’asse Mosca-Teheran. L’Iran ha i piedi in Iraq da tempo e non intende arretrare. Basti pensare alle parole di al-Abadi, pochi giorni fa, a seguito dell’annuncio del Pentagono dell’invio di unità speciali per operazioni dirette: l’Iraq non ha fatto richiesta a nessun paese di mandare truppe di terra e misure simili saranno considerate «atto ostile». C’è bisogno di armi e munizioni, di jet e denaro, ma non di soldati stranieri. Eppure soldati stranieri nel paese ci sono già: l’Iran mantiene da mesi una presenza costante, le Guardie Rivoluzionarie, che non solo gestiscono le milizie sciite ma prendono attivamente parte agli scontri con l’Isis. E a Kirkuk a confrontarsi non sono peshmerga e truppe governative irachene, ma peshmerga e milizie sciite, strettamente collegate a Teheran e ingestibili da Baghdad.

È chiaro che l’Iran non può tollerare l’intervento congiunto turco-kurdo a Mosul, città di estrema importanza strategica e simbolica. Non è tollerabile neppure per la Russia, ai ferri corti con Ankara: Mosca ha creato un centro di coordinamento militare con siriani, iraniani e iracheni a Baghdad, con cui gestisce informazioni di intelligence e coordina le operazioni sui campi di battaglia siriano e iracheno. Il presidente Putin vuole gestire la lotta all’Isis anche in Iraq, come lo vuole Teheran: mantenere il controllo sullo Stato satellite iracheno significa garantire continuità territoriale all’asse sciita, dall’Iran alla Siria al Mediterraneo e al Libano.

Una visione che si scontra con gli interessi del presidente kurdo Barzani, che approfitta palesemente dell’avanzata di Daesh per allargare i confini del Kurdistan iracheno e tagliare l’agognato traguardo dell’indipendenza. Per farlo passa per ogni possibile alleato, dagli europei agli statunitensi che hanno fornito fin da subito armi e munizioni ai peshmerga. Ma soprattutto fa leva sui buoni rapporti che ha intessuto con la Turchia: Erbil, considerata da Ankara l’anti-Pkk e l’anti-Rojava, è lo strumento turco per impedire le spinte indipendentiste kurde in Medio Oriente e lo Stato cuscinetto con l’Iran e l’Iraq in mano sciita.