A 12 giorni dall’occupazione di Afrin da parte delle truppe turche e dell’Esercito libero siriano e lo sfollamento di 300mila civili, la Francia sarebbe pronta a inviare proprie unità militari a Rojava, nella città di Manbij, contro un’eventuale (e minacciata) offensiva turca.

A riportarlo è Le Figaro, a seguito dell’incontro all’Eliseo tra il presidente Macron e una delegazione del Partito Democratico dei Popoli (Pyd) e delle unità di difesa popolari Ypg/Ypj, tra cui spiccava il nome di Asya Abdullah, co-presidentessa del Tev-Dem (la Federazione del Nord della Siria).

«Macron – si legge nella nota ufficiale – ha espresso la speranza di avviare un dialogo tra governo turco e Sdf», quelle Forze Democratiche Siriane, federazione di curdi, arabi, circassi, turkmeni che liberò dallo Stato Islamico proprio Manbij nell’agosto 2016.

Quello che la nota non dice e che riporta invece il quotidiano francese è che Parigi sarebbe intenzionata a inviare nella città settentrionale siriana truppe speciali a sostegno dei duemila marines Usa di stanza nell’area. Il tutto per impedire ad Ankara di fare quanto minacciato più volte: avanzare da Afrin verso oriente, verso Manbij, Kobane, Qamishli, e occupare l’intera regione curdo-siriana.

L’ambasciatore francese in Turchia, aggiunge Le Figaro, sarebbe stato incaricato di riferire tali intenzioni al presidente Erdogan. Che ha già reagito: la Francia, ha detto ieri, «ha un approccio completamente sbagliato» sulla Siria. «Chi sei per mediare tra la Turchia e un gruppo terroristico?», ha tuonato.

Il vice premier Bozdag si è accodato definendo Parigi «target della Turchia» nel caso di un ingresso via terra: «Chiunque attacchi la Turchia al fianco dei terroristi riceverà lo stesso trattamento».

Resta da vedere quanto la tardiva presa di posizione della Francia (forse sulla spinta di antichi legami coloniali, con la Siria tuttora vista come teatro da cui Parigi non intende esimersi dall’intervenire) possa concretizzarsi: con Afrin già caduta e devastata, Manbij è da settimane – se non mesi – oggetto del negoziato tra Stati uniti e Turchia.

Washington, che alle Sdf ha fornito armi e supporto militare contro l’Isis, non può perdere del tutto la faccia accettando un’invasione turca in silenzio. Si parla insistentemente di un accordo segreto per far evacuare le Ypg da Manbij, evitare uno scontro diretto e aprire la strada alla futura avanzata di Ankara, con la conseguente creazione dell’agognata zona cuscinetto. E giovedì lo stesso presidente Trump, durante un comizio in Ohio, ha prospettato un’uscita degli Stati uniti, «molto presto», dalla Siria.

Al momento è in fase di realizzazione nell’ovest di Rojava: il distretto di Afrin è dal 18 marzo, giorno della caduta, oggetto di una sostituzione della popolazione. Fuori i curdi, dentro rifugiati siriani e miliziani islamisti. Dopo aver saccheggiato la città e occupato le abitazioni, truppe turche e unità di opposizione al soldo di Ankara stanno impedendo fisicamente il rientro degli sfollati che al momento si trovano a Kobane, Tal Rifaat e nella zona di Shahba, ad Aleppo.

«Dopo 69 giorni di resistenza contro il secondo esercito della Nato centinaia di migliaia di persone del cantone di Afrin restano sfollate – scrive l’Information Center del Tev-Dem – Migliaia di jihadisti sono stati trasferiti da Ghouta est ad Afrin per realizzare un cambiamento demografico e implementare un ordine turco-islamico».

Si tratterebbe, aggiunge, di 13.400 persone, tra miliziani islamisti e loro familiari. Secondo i locali, molte famiglie che avevano tentato di rientrare sono state catturate e trasferite in zone sconosciute o in villaggi in mano a gruppi islamisti.