Sono poco più di una cinquantina i parlamentari che finora si sono espressi a favore dell’avvio di una procedura d’impeachment nei confronti di Donald Trump. Tutti democratici. Ma c’è anche un repubblicano, Justin Amash, rappresentante del Michigan. Non sono solo peones.

Ci sono undici componenti della commissione giustizia e diversi presidenti di commissione. Una prima base politica consistente nella camera bassa, quella che eventualmente dovrà celebrare la parte iniziale, decisiva, del “processo” al presidente repubblicano. Ai deputati scesi sul piede di guerra s’aggiungono senatori di primo piano e candidati alla nomination democratica. Ultimo Bernie Sanders. Ma con una cautela tale da far pensare che, in realtà, il senatore del Vermont veda più i rischi di prendere di petto Trump che i vantaggi.

[do action=”citazione”]Sanders raccomanda infatti alla commissione giustizia della House l’avvio d’indagini a carico del presidente, non l’inizio di un impeachment in senso proprio, indagini che devono preliminarmente verificare «se Trump ha commesso reati tali da essere posto sotto impeachment».[/do]

Buttarsi a capo fitto nell’impeachment finirebbe per fare il gioco del presidente, sostiene Sanders, ben sapendo che al senato, dove proseguirebbe il percorso della messa in stato d’accusa, la maggioranza è repubblicana e, dei 47 senatori democratici, non tutti sono per l’impeachment. Tanto che potrebbe essere lo stesso Trump a fare in modo di averlo, l’impeachment, fa capire Sanders, che, con i dovuti distinguo politici, è sulla lunghezza d’onda della speaker della camera Nancy Pelosi, da sempre ostile all’idea di liberarsi del presidente per via giudiziaria.

Ed eccoci così tornati alla casella iniziale di questo gioco dell’oca cominciato con l’insediamento stesso di Trump, un intruso nella Casa Bianca della cui immediata e inevitabile estromissione si sarebbe occupata la giustizia, non la politica. Un gioco andato avanti con fughe in avanti e arretramenti, di esponenti democratici ma anche repubblicani, sotto la spinta nevrotica di media ansiosi di fare il bis del Watergate, con in più il thrilling della regia di Putin. Intanto l’indagine dello Special Counsel andava avanti in un silenzio che era interpretato come l’indizio inequivocabile di un imminente terremoto istituzionale. Con la sorpresa finale, come si è potuto ascoltare dallo stesso Mueller, che no, non ci sono i profili di un caso da impeachment di cui possa occuparsi la giustizia. Se ne occupi piuttosto la politica.

[do action=”citazione”]La palla è finita così nel campo democratico, nel pieno di una campagna presidenziale. Dove ogni mossa è calcolata in rapporto alle conseguenze che può avere sulla sorte di ogni candidato e su quella complessiva dei ognuno dei due partiti.[/do]

Sarà anche per l’odierna velocità del suono degli eventi che si susseguono azzerando quelli del giorno prima, certo è che l’inaspettata conferenza stampa del grande inquisitore è già finita nel cono d’ombra dei ragionamenti politici di convenienza tattica. Dei calcoli politici. L’unico effetto immediato visibile è che la mossa di Mueller sta creando difficoltà e divisioni nel campo democratico più che preoccupazioni al diretto interessato. Che, nel frattempo, con la sua prevedibile imprevedibilità, volta pagina dirigendo la sua aggressività verso il Messico. Con la minaccia di aumentare, già a partire dal 10 giugno, le tariffe doganali sulle importazioni dal Paese confinante.

Il presidente xenofobo – lo era anche quando era solo candidato presidenziale – ha sempre giocherellato cinicamente con la questione messicana (immigrazione, muro, aziende americane delocalizzate) sapendo di toccare le corde razziste del suo elettorato militante, anche con l’uso frequente di espressioni oltraggiose verso il popolo messicano. Una permanente, rozza, campagna antimessicana, anti latinos, ha caratterizzato la presidenza Trump, finché sembrava che con l’avvento di Andrés Manuel López Obrador si fosse raggiunto un piano di relativa calma nelle relazioni bilaterali.

D’improvviso l’imposizione di tariffe su un volume d’importazioni che non vale neppure l’1,5 % del Pil statunitense. «Il Messico si è approfittato degli Usa per decenni», «ha realizzato una fortuna» sulle spalle dell’America, «ora è il momento che faccia quello che deve fare». Una mitragliata di tweet che apre un nuovo/vecchio fronte che sarà il leit motiv, di qui al novembre 2020, della campagna per la rielezione. E mentre il presidente va sotto i riflettori con le sue sparate razziste, i democratici si ritrovano intrappolati nel dilemma se procedere con l’impeachment contro l’avversario, con alcuni di loro animati dal dubbio di fargli pure un favore.