Altro che fake news. Qui siamo alla fake reality, la realtà che l’amministrazione Trump e la maggioranza repubblicana al Congresso contrabbandano come il frutto della riforma fiscale approvata da senato e camera. La realtà falsa è quella condensata nel commento di Paul Ryan, lo speaker della camera, al settimo cielo dopo l’approvazione del “tax bill”, la riforma che, a suo dire, porterà «beneficio ai lavoratori, salari più alti, più posti di lavoro». Accadrà semplicemente l’opposto: si tratta di un testo scritto non dal Partito repubblicano ma per il Partito repubblicano dagli esperti di Wall Street, un testo unicamente a favore delle grandi famiglie, tra cui ovviamente la Trump dinasty.

E delle imprese multinazionali che vedranno ridotta la loro tassazione sugli utili, con l’aliquota che passa dal 35% al 21% in media. Senza contare lo «scudo fiscale» per le multinazionali, la cui liquidità custodita fuori degli Usa e al riparo dal fisco americano è di circa due miliardi e mezzo di dollari, che potranno rientrare in patria con una una tantum risibile. Il testo prevede anche una menomazione della riforma sanitaria con l’eliminazione dell’obbligo per ogni americano di essere assicurato pena il pagamento di pesanti ammende (il che naturalmente farebbe cadere l’obbligatorietà per gli stati, che non lo vogliano, di attuare la riforma sanitaria, l’Obamacare).

Quindi, come prima conseguenza diretta del tax bill, per i lavoratori e per i meno abbienti, ecco il venir meno di un diritto fondamentale, dal valore anche economico, visti i costi vertiginosi della sanità americana per chi è sprovvisto di assicurazione. Sul lato dei vantaggi, per i lavoratori, siamo alla riedizione della solita storiella dei molti più soldi che girano e che dunque creano più opportunità e più lavoro. George Bush padre derideva questa teoria dei Chicago Boys fatta propria dal suo predecessore, definendola «vodoo economics», l’economia dello stregone.

Adesso lo stregone non è Ronald Reagan ma Donald Trump, che si vanta di esserne l’erede e il continuatore.

Ma i tempi di Reagan, in rapporto a quelli dell’America odierna, erano molto migliori dal punto di vista delle diseguaglianze socio-economiche, ed erano molto diversi dal punto di vista del paesaggio economico. Erano tempi in cui la globalizzazione era solo agli inizi, ed era ancora agli inizi il grande fenomeno della finanziarizzazione dell’economia. Se la reaganomics fu una tragica beffa, la trumponomics è una farsa dalle conseguenze ancora più drammatiche.

Meno tasse significa che nelle casse federali e statali entreranno meno soldi. Si calcola che il tax bill regalerà a corporation e a grandi dinastie 1,5 trilioni di dollari in termini di riduzione fiscale e si presume che questo aggiungerà al deficit pubblico, già mostruoso, altri 1.46 trilioni nel prossimo decennio. Meno soldi, dunque, per la collettività, per le opere pubbliche, per i servizi pubblici, per l’assistenza, meno soldi per chi ha poco o niente. Chi ha molto o moltissimo ne avrà ancora di più.

Ma neppure il ceto medio ha di che brindare. La riforma sarà una bonanza per il mercato azionario? Così dicono. Peccato che solo la metà degli americani sia titolare di azioni, e di questi azionisti solo il 13,9 % ne possiede direttamente. E se il 60% alla base della piramide controlla l’1,8% del mercato azionario, l’1% al vertice ne possiede il 40%. Quindi è davvero una riforma che sembra fatta su misura per i super ricchi e che neppure alle classi medie affluenti offre prospettive vantaggiose.
Fatto sta che, secondoTrump, il tax bill è un successo senza precedenti. In effetti è l’unica legge di peso condotta in porto negli undici mesi di questa presidenza. E considerando anche il clima negativo che fino a ieri regnava intorno al tycoon di Manhattan negli stessi circoli repubblicani, specie dopo la batosta di Roy Moore in Alabama, il fronte della destra sembra ricompattato.

Cosicché the Donald ha ripreso la baldanza del bullo dei suoi giorni migliori. Ieri, mentre la notizia del tax bill dominava i notiziari, ecco il presidente che minaccia di tagliare gli aiuti a quei paesi che, oggi, nell’assemblea generale dell’Onu, voteranno a favore della risoluzione che denuncia la decisione degli Usa di spostare a Gerusalemme la propria ambasciata in Israele.

A parte il lato grottesco dell’ingiunzione, sono aiuti in gran parte indirizzati ad alleati strategici di Washington. Come lo stesso Egitto, autore della risoluzione, che ha ricevuto 77,4 miliardi di dollari dal 19148 a oggi, di cui, dal 1987 a oggi, 1,3 miliardi all’anno in aiuti militari. Sarà davvero interessante vedere se e come sarà attuata questa minaccia. E come sarà vista, l’eventuale sua attuazione, dal governo israeliano, quello maggiormente interessato alla vicinanza di un Egitto paese-caserma.