Un vero trailer infernale», lo ha battezzato Joe Dante, in un gioco di parole con il nome della sua newsletter settimanale Trailers From Hell. In effetti, alla vigilia del vertice di Singapore, Donald Trump si è fatto annunciare da un trailer cinematografico. La stupefacente rozzezza del prodotto ne tradisce l’origine; e non si tratta di Madison Avenue. Nemmeno di una parodia come quella ideata da Seth Rogen e James Franco in The Interview. La silhouette delle Casa Bianca, sull’angolo in alto del fotogramma, il «film» è annunciato come una produzione della Destiny Pictures.

 

Il logo (dorato naturalmente) che si staglia su montagne, cieli pieni di nuvole bianche e sul profilo di una fetta del mondo che ruota come quello della sigla della Universal.
«Solo un numero piccolissimo degli esseri viventi oggi lascerà dietro di sé un autentico impatto», intona la voce del narratore su un montaggio di immagini che include piramidi, la grande muraglia, il Colosseo le folle di Times Square, allietate da una musica imitazione di Philip Glass.

 

Tra i monumenti, appare presto l’uomo del destino, Donald Trump, in una foto da grande statista davanti all’Assemblea delle Nazioni Unite. Questa, continua il narratore, è una storia di opportunità, la storia di un momento speciale quando un uomo si trova davanti a una scelta che non si ripeterà mai più».

 

L’altro uomo del film, ovvio, è Kim Jong-un. A cui il trailer presenta due alternative. La prima è fatta di inquadrature di fabbriche, laboratori, vie affollate e di un cestista che centra il canestro – un futuro di prosperità capitalista sintetizzato dal palazzinaro di Queens. Nella seconda – il momento clou di questo kolossal propagandistico pagato dai contribuenti Usa – si vede la celluloide della pellicola accartocciarsi su se stessa sciogliendosi per il calore. Da cui si deduce un’interpretazione cinefila dell’olocausto nucleare.

 

Le immagini del prospero, felice, mondo occidentale sono a colori. Quelle che inquadrano i nordcoreani sono spesso in triste bianco e nero. Kim fa capolino qua e là. Trump a un certo punto appare in una foto con Sylvester Stallone.
La progressione del video anticipa il già mitico incontro. Sorridono sempre di più. Un aereo da guerra che decolla da una portaerei ci ricorda nuovamente la scelta «sbagliata». In quella «giusta» vediamo dei missili che – in una ripresa proiettata al contrario – rientrano nelle postazioni da cui erano stati lanciati. La musica, intanto, si è gonfiata degli archi di un’orchestra. Il mondo si prepara a guardare la grande svolta.

 

Questo film, dice il narratore avviandosi alla conclusione – su cieli di tramonti infuocati- «è interpretato da Donald Trump e da Kim Jong-un, in un incontro che riscriverà la storia».
Ci sarebbe da rotolarsi dal ridere se il tono grottescamente pomposo del «trailer», e il suo lessico limitato, non riflettessero la totale mancanza di ironia che contraddistingue il presidente Usa (il video è farina del suo sacco). E, allo stesso tempo, la sua convinzione assoluta che basta molto poco – anche un oggetto primitivo e infantile come questo – per manipolare chiunque. Si tratta di un oggetto e di una convinzione tipici del despota di un Paese totalitario e poco sofisticato.

 

La guerra di Trump ai media non significa infatti che vuole distruggerli – bensì controllarli. Perché quella mediatica è l’unica realtà in cui lui esiste. Prepariamoci quindi a un nuovo mainstream – fatto di Fox News, Breitbart, «New York Post», «National Enquirer». E di un diluvio di Destiny Productions.
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