Un assedio economico. Con queste parole ieri il presidente turco Erdogan ha sparato l’ennesima bordata contro quei nemici che cercherebbero di mettere la Turchia in ginocchio attraverso le leve del mercato capitalista. «Il tasso di cambio attuale non ha alcun fondamento. I fondamentali della nostra economia sono robusti», ha tuonato il presidente.

Parole non apprezzate dai mercati, che hanno trascinato ulteriormente verso il basso sia la lira sia l’indice della borsa di Istanbul, mai così male dal 2009.

Gli investitori si aspettano che il governo turco riconosca le debolezze dell’economia del paese: inflazione galoppante, deficit commerciale, debito privato fuori controllo e una banca centrale imbrigliata dall’ostinata volontà del presidente. Solo azioni concrete e dolorose per il consenso del governo, perché nel breve significherebbero tagli alla spesa e agli investimenti pubblici, possono invertire la tendenza.

Erdogan preferisce invece puntare il dito contro il «terrorismo economico» dei social media, dove si anniderebbero «traditori» meritevoli di punizione. L’ufficio della procura di Istanbul ha avviato indagini nei confronti di 346 account social, mentre il Consiglio investigativo dei crimini finanziari, organismo turco di controllo del mondo economico, annuncia indagini contro quelle «fake news» che costituirebbero la campagna di disinformazione parte della guerra economica dichiarata contro la Turchia. Quando parla di guerra, Erdogan pensa agli Stati Uniti.

Il tweet con cui il presidente Usa Trump ha annunciato l’aumento della tassazione sull’acciaio e l’alluminio turchi, un mercato da un miliardo di dollari l’anno, ha reso palese che alla Casa bianca non c’è alcun interesse a tamponare la crisi turca, piuttosto si cerca di dare un’ulteriore spintarella verso il baratro.

Erdogan ha risposto sparando a zero in direzione Washington: «Siamo insieme nella Nato e cercate di pugnalare alle spalle il vostro partner strategico». L’errore del presidente turco è forse non aver ancora capito che l’attuale leadership alla Casa bianca è, nell’intera storia dell’alleanza atlantica, quella che per essa nutre meno interesse. Trump è il presidente che ha paventato l’uscita americana dalla Nato.

Soprattutto, Trump appare deciso a proseguire con la sua linea preferita, quella delle sanzioni e restrizioni economiche nei confronti di chi non si allinea agli interessi americani. Nel caso turco, si è trattato del rialzo mirato di alcuni dazi sensibili e di misure restrittive contro i ministri degli interni e della giustizia, colpevoli del mancato rilascio del pastore americano Andrew Brunson. Trump ha premuto il bottone anti-panico dei mercati finanziari e spinto i capitali lontano dall’economia turca. Un trend che, a onor di cronaca, va avanti ormai dal 2014.

Le sanzioni americane non colpiscono però solo la Turchia, ma anche Cina, Iran e Russia, spingendo questi paesi gli uni verso gli altri. Erdogan ha forse capito che da questa guerra economica non può uscire da solo, quindi si guarda attorno in cerca di alleati proprio nel momento in cui su Istanbul plana l’aereo che, con gran effetto mediatico, porta nel paese il ministro degli esteri russo Lavrov. Un incontro non figlio della crisi monetaria bensì programmato da tempo. Tuttavia la tempistica è di grande aiuto sia per il presidente turco e, ancor più, per il ministro russo.

Erdogan cerca di mostrare all’America che può fare a meno di lei, che altre alleanze sono possibili, un multilateralismo che è in effetti il leit motiv della politica estera turca degli ultimi anni, allontanandosi da «alleanze impari», come è definita da Erdogan quella con gli Stati uniti.

Dimenticando però che la disparità è frutto anche di un diverso peso economico e politico nel mondo. Se Erdogan punta allo scontro frontale economico con gli Stati uniti, è probabilmente destinato a soccombere.

Perché bisogna valutare se la Russia, ben contenta di tendere il braccio verso Ankara, possa davvero sopperire da sola alla mancanza di capitali occidentali. Il ministro russo Lavrov ha inaugurato il viaggio porgendo il primo confetto: la rimozione dei visti per i cittadini turchi. Insomma, quello che la Turchia chiede da anni all’Europa, che pone condizioni, come la revisione della legge antiterrorismo, che a Mosca non interessano.

Altre saranno le richieste di Mosca: bisogna guardare alla Siria e ai colloqui di Astana. Il presidente Assad si prepara a marciare su Idlib, l’ultima porzione di Siria in mano ai ribelli e sotto la protezione turca. È plausibile che, in cambio del suo aiuto, Mosca chieda ai turchi di allinearsi ai piani russi per la restaurazione di Bashar al-Assad.

Nel frattempo il presidente turco valuta alternative all’amaro salvagente del Fondo monetario internazionale e guarda piuttosto alla potenza finanziaria cinese. Cina che sarebbe ben felice di investire in Anatolia e da tempo mira all’acquisizione di ulteriori porti commerciali nel Mar Nero, nell’Egeo e nel Mediterraneo orientale.

Con la Turchia ha stretto accordi vantaggiosi in settori vitali e profittevoli quali telecomunicazioni, logistica marittima e ferroviaria, commercio online, informatica e sicurezza pubblica. Erdogan può dunque accettare l’aiuto di Pechino, ma così facendo spalancherà la Turchia all’ingombrante presenza cinese.