È ufficiale. Trump in guerra contro Twitter. Furibondo perché la piattaforma di Jack Dorsey ha iniziato a mettere in guardia il pubblico (80 milioni di followers) contro le sue bugie più flagranti, giovedì pomeriggio il presidente Usa ha firmato un ordine esecutivo che limiterebbe la protezione legale di compagnie come Twitter, Google e Facebook contro eventuali cause per diffamazione.

La vendetta immediata e cattiva è un classico della dinamica trumpiana ma in questo caso ha una valenza contradditoria, se non addirittura boomerang. Rendendo le piattaforme più vulnerabili ad azioni legali contro contenuti ritenuti offensivi, falsi o degradanti – esattamente come quelli che regolarmente posta, o riposta, lui stesso – l’azione di Trump potrebbe incoraggiare i social a pattugliare più attivamente il proprio traffico. E quindi anche i tweet del presidente.

L’ordine, che modifica l’interpretazione dell’articolo 230 del Communications Decency Act, legge passata nel 1996 per la regolamentazione dei media online, è già stato definito illegale da numerosi esperti di giurisprudenza, che anticipano un fiorire di cause in tribunale con esiti a sfavore del presidente.

«Ironicamente, Trump è un grosso beneficiario dell’articolo 230. Se le piattaforme non fossero immuni per legge, non rischierebbero di esporsi legalmente pubblicando le bugie, le affermazioni diffamatorie e le minacce di Trump», ha dichiarato al New York Times Kate Ruane, consulente legislativo dell’American Civil Liberties Union, che ha già reso pubblica la sua opposizione all’ordine esecutivo.

Solo qualche giorno fa, insieme al tweet che accusava le elezioni via mail di essere intrinsecamente fraudolente (è stata questa menzogna particolare a provocare l’intervento di Twitter), Trump aveva postato più tweet che accusavano il conduttore televisivo Joe Scarborough di aver ucciso una sua dipendente, nel 2001, affermazione talmente falsa che il vedovo della vittima si era sentito in dovere di scrivere una lettera aperta a Twitter perché i post fossero rimossi. Twitter ha rifiutato la sua richiesta ma – senza la protezione legale garantitagli finora – le cose forse sarebbero andate diversamente.

Motivando la sua azione, Trump ha ripetuto che i social media (come, secondo lui, i media tradizionali, parte delle odiatissime «élite») hanno pregiudizi contro i conservatori. Nella logica del presidente, affiancato dal devotissimo ministro della giustizia William Barr: se una piattaforma sceglie di esercitare un controllo editoriale sui contenuti che pubblica simile a quello di una testata mediatica tradizionale, deve funzionare come tale. Il coro di denuncia contro la sua azione si è però levato sia da destra che da sinistra.

Gli ultimi tweet del presidente includono una rabbiosa tirata contro «il sindaco di sinistra» di Minneapolis e i protestanti («delinquenti»), scesi in strada dopo l’uccisione di George Floyd da parte della polizia. «Quando inizia il vandalismo si spara», scrive ancora Trump. Sotto il suo testo, in blu: «Questo post viola le regole di Twitter contro l’incitamento alla violenza. Ma pensiamo che possa essere di interesse per il pubblico, quindi non lo elidiamo», dice il disclaimer della piattaforma.