La campagna permanente, era il titolo brillante di un saggio scritto da Sidney Blumenthal, agli inizi degli anni ’80, che preconizzava l’ingresso in un’era nella quale la logica più umorale che razionale delle campagne elettorali avrebbe guidato anche l’azione di un presidente – o di un qualsiasi parlamentare – svincolato da paradigmi di partito e in una costante, spasmodica, attenzione ai sondaggi e agli umori del pubblico, e nell’assillo indomabile di dover essere rieletti e poter conservare il potere.

In Trump The Permanent Campaign, fin dal primo giorno alla Casa bianca, è nel suo pieno dispiegamento, e lo è in misura extra-extra large – come è The Donald – rispetto ai suoi predecessori ma anche rispetto all’infinita letteratura sull’argomento.

Ne è il tratto distintivo. E lo è in modo assolutamente diverso al confronto con quanto si è visto finora alla Casa bianca, Reagan compreso, e riguardo a quanto predicano i guru della comunicazione politica. The Donald si muove con vorticosa irrequietezza, esattamente come faceva da candidato, ma senza il calcolo evidente di chi ha il chiodo fisso della rielezione.

Non liscia il pelo ai media, diversamente dai politici di professione, ma li sfida continuamente («the opposition party», li definisce) e non dà mai, neppure minimamente, l’impressione di uno che vuole allargare il consenso almeno a una parte degli elettori che, da candidato, lo guardavano in cagnesco.

Trump non fa niente per piacere a quelli a cui non piace. E gli ambienti politici, i media, gli analisti, gli osservatori stranieri fanno una fatica dannata a stargli dietro e a porre dentro un alveo un minimo coerente le sue dichiarazioni e le sue decisioni.

Si comincia perfino a considerare «normale» il suo continuo contraddirsi – «è fatto così ma poi cambierà» -, o il suo lasciar cadere nel vago annunci definitivi che per qualche ragione si rivelano irrealizzabili. Ma si capisce bene che è uno sforzo di adattamento a un personaggio da film che però è pur sempre il presidente degli Stati uniti.

Sulla stessa offensiva anti-immigrati provenienti da sette paesi islamici, sembra aver avuto un qualche ripensamento, quando, di fronte al reiterato blocco delle procure alle sue misure, parla di un non meglio precisato pacchetto «nuovo di zecca» di provvedimenti.

Nel frattempo però – e qui occorre stare attenti a non lasciarsi imbambolare dalle sue piroette – gli agenti federali dell’ente dell’immigrazione e delle dogane (IEC) sono impegnati come mai prima nella caccia all’immigrato senza documenti, soprattutto nelle città e nelle contee «santuario» dove le autorità locali fanno valere il loro potere giurisdizionale sui propri cittadini, non importa se irregolari, impedendo ai «federali» di attuare le misure restrittive decise dalla nuova amministrazione.

Ufficialmente gli agenti dell’IEC cercano gli irregolari che hanno commesso reati o sono parte di gang, la realtà è che stanno fermando anche tanti immigrati normalmente inseriti da tempo nella vita americana e mai prima d’ora disturbati dagli agenti.

Facile immaginare il panico che si sta diffondendo nella vasta comunità di immigrati senza permesso. Ed è facile immaginare la soddisfazione della parte di elettori che hanno votato Trump e che ora lo difendono a spada tratta come il loro eroe alla Casa bianca.

Il filo conduttore evidente di questa storia è che, nonostante gli sia «impedito» di attuare la sua principale promessa, il Muslim Ban, il «loro» presidente, lo mette in pratica, e procede nei fatti come annunciato in campagna elettorale.

Questo modo di dire e agire, che ignora convenzioni consolidate, ma anche leggi fondamentali, e che trova espedienti per aggirare gli ostacoli, questo attivismo da presidente perennemente in campagna elettorale fino a quando, fino a quanto può arrivare? E quanto c’è di umoralità, quanto di calcolo nelle mosse di questo anomalo personaggio che si è accaparrato le chiavi della Casa bianca.

Se lo chiedono perfino i suoi più stretti alleati e amici. Benjamin Netanyahu, per dirne uno. Martedì sarà ricevuto alla Casa bianca. Abbracci, sorrisi, esibizioni esagerate di amicizia. Eppure Bibi non troverà quella disponibilità illimitata nei confronti suoi e d’Israele, tanto sbandierata solo qualche settimana fa dal nuovo presidente.

Bibi rischia di fare la fine del predecessore Olmert, se non in galera, cacciato dal palazzo del governo. È di questi giorni la notizia che la polizia non gli dà tregua nelle indagini su ripetuti episodi di corruzione che riguardano lui e sua moglie. In Israele lo considerano già un’anatra zoppa. Perché prendere impegni con lui?

Nel frattempo è stato notato che la stessa questione del trasferimento dell’ambasciata degli Usa da Tel Aviv e Gerusalemme è tra la decisioni «non immediate» ma sono parte di un «process». Né è passato inosservato il siluramento di Elliot Abrams come numero due del dipartimento di stato designato da Rex Tillerson.

La decisione di Trump è stata irrevocabile nonostante l’insistenza di Tillerson, digiuno di diplomazia ed estraneo al dipartimento di stato, che aveva bisogno di uno sherpa come il veterano Abrams, sostenuto peraltro dall’Aipac, la più influente delle lobby ebraiche conservatrici, e dall’ascoltato genero-consigliere Jared Kushner.

Abrams, che pure in un primo momento aveva avuto l’approvazione quasi entusiastica di Trump, è stato poi sonoramente bocciato quando il lunatico presidente ha scoperto, successivamente, che era stato un suo fiero critico durante la campagna elettorale.

Contemporaneamente, l’ambasciatrice statunitense al palazzo di vetro, Nikki Haley, che in diretta connessione con la Casa bianca, ha bloccato la nomina dell’ex-premier palestinese Salam Fayyad alla guida della missione Onu in Libia. Nessun riferimento al suo impeccabile curriculum, ma alla sua «colpa» di essere palestinese.

Uno spartito non meno contradditorio, quello messo in scena nei giorni scorsi con i due massimi protagonisti dell’Estremo Oriente, Shinzo Abe, accolto come un grande amico con cui giocare a golf a Mar-a-Lago e trattato come il nuovo perno della politica americana nella regione; e Xi Jinping, il leader cinese prima oltraggiato con l’ormai famosa telefonata, la prima da presidente, con la leader di Taiwan Tsai Ing-wen, e poi trattato con esibito rispetto e la dichiarazione solenne di adesione al principio inderogabile per Pechino della «One-China». Cosa pensare? Qual è la vera priorità di questa amministrazione in Asia?

Trump, insomma, dà ascolto solo a se stesso, dandone prova continuamente, e arriva anche a delegittimare personaggi chiave della sua amministrazione, come lo stesso Rex Tillerson. Ci si può anche sforzare per capire se, dietro queste mosse che hanno caratterizzato l’inizio vulcanico della nuova amministrazione, ci sia perfino un disegno o una qualche prospettiva.

E se invece l’America fosse entrata in una fase di alta e intensa instabilità e confusione, della quale, in realtà, la presidenza Trump non è la causa ma semplicemente lo specchio?