Ma ci saranno le elezioni presidenziali il 3 novembre? E quelle del Congresso? Nella storia degli Usa è accaduto una sola volta che si votasse durante un’epidemia: nel 1918, nel mezzo della spaventosa influenza chiamata «spagnola» benché in realtà venisse proprio dagli Stati uniti, dal Kansas (fu portata in Europa dalle truppe americane schierate in Francia a sostegno degli alleati).

L’epidemia aveva mostrato tutta la sua virulenza già alla fine di settembre ma, nel clima di guerra, la censura funzionava e le elezioni si tennero ugualmente, benché la partecipazione fosse fortemente ridotta in molti stati.

Si votò il 5 novembre, quando la guerra stava finendo: l’armistizio sul fronte occidentale sarebbe stato firmato soltanto una settimana dopo. Alle urne i democratici pagarono il prezzo dell’aver trascinato il paese in una impopolare guerra europea: persero 23 seggi alla Camera, e 7 al Senato, lasciando ai repubblicani la maggioranza in entrambe le camere (non si votava per la presidenza).

Oggi si sa perfettamente quanti sono i morti, quanto sia contagioso il Coronavirus e quanto pericolosi siano gli assembramenti in pubblico, quindi il calendario elettorale è già stato sconvolto: Connecticut, Delaware, Georgia, Indiana, Kentucky, Louisiana, Maryland, Ohio, Puerto Rico e Rhode Island hanno già rinviato le primarie, la Pennsylvania sta per farlo. Tuttavia non è affatto sicuro che le primarie si possano tenere il 2 giugno in condizioni di sicurezza, né che la stessa convenzione democratica a Milwaukee, in luglio, sia possibile.

Per i democratici è un gigantesco problema perché Joe Biden, benché in vantaggio, non ha ancora raccolto la maggioranza necessaria dei delegati alla convenzione e Sanders non ha rinunciato alla sua corsa. Questo significa che Biden potrebbe essere proclamato vincitore da una convenzione dimezzata, dopo risultati incerti in quasi metà delle primarie: un disastro politico in vista dello scontro con Trump in autunno.

A questo si aggiunge la questione delle grandi metropoli come New York o Los Angeles, che votano democratico e che saranno infinitamente più colpite dal Covid-19 di quanto non lo saranno le zone rurali, feudo dei repubblicani.

Inoltre, se l’epidemia dovesse davvero diventare catastrofica, come appare dalla velocità di diffusione del contagio in questi giorni è del tutto possibile che il 3 novembre, il giorno delle elezioni 2020, si trasformi nel «mese» delle elezioni, o addirittura nei «mesi», a seconda di quanto tempo ci vorrà per contare le schede.

Questo perché gli stati dovrebbero ampliare la possibilità di votare prima della data prevista o di votare per posta, con le inevitabili conseguenze sul piano della sicurezza e integrità del voto, oltre che della tempestiva conoscenza dei risultati.

Negli Usa non esiste un’autorità legalmente autorizzata a rinviare le elezioni, qualunque sia il motivo: la costituzione prescrive che si voti «il primo martedì che segue il primo lunedì di novembre».

Durante tutte le numerose guerre in cui il paese è stato impegnato dalla sua fondazione ad oggi si è sempre votato nelle date stabilite: nel 1812 durante la guerra con la Gran Bretagna, nel 1846 durante quella con il Messico, nel 1942 e 1944 durante la Seconda guerra mondiale. Ronald Reagan, durante i momenti di massima tensione con l’Unione Sovietica, nel 1983, aveva fantasticato di situazioni in cui la Federal Management Agency, governasse il paese in caso di guerra nucleare ma poi non se ne fece nulla.

Trump, che di proposte incostituzionali via Twitter ne fa almeno due alla settimana, sarebbe deliziato dal poter invocare l’epidemia per rinviare le elezioni e restare al potere ma è improbabile che i suoi consiglieri, il Congresso o la Corte suprema considerino seriamente un’ipotesi del genere.