Stanno rubando le elezioni, stanno truccando le elezioni, in Wisconsin Michigan Pennsylvania Georgia ho vinto io, il voto postale è un sistema corrotto, enorme corruzione e frode in corso, circolano decine di milioni di schede non richieste, con i voti legali ho vinto facile con quelli illegali ci derubano, vincevamo alla grande in ogni luogo chiave e i nostri numeri sono stati tagliati via, i conteggi si sono fermati per ore e i risultati sono spariti e riapparsi con su scritto Biden, gli stati decisivi sono tutti gestiti dai democratici, ci hanno impedito di sorvegliare lo scrutinio, hanno messo i cartoni alle finestre per non farci vedere…

È UN FLUSSO PARANOICO di coscienza, non una conferenza stampa, quella che Trump ha tenuto all’inizio della notte a Washington. Il presidente è emerso dallo Studio ovale in cui era rimasto trincerato per 36 ore, ha detto «buona sera» e poi ha sparato venti minuti alla sua maniera, con una particolarità: non una delle cose che ha detto era vera. Non una. A parte «buona sera». Fatto mai visto, tutti i grandi network – Abc, Cbs, Cnbc… – l’hanno oscurato, riprendendo la linea dallo studio.

Ma questo inaudita catena di accuse senza prove è la cosa più simile a un discorso di concessione che Joe Biden potrà mai sperare di ottenere. Il concession speech non è una legge ma una tradizione politica, tutta americana. Il momento in cui lo sconfitto ammette di aver perso e ferma gli uomini che lo sostengono, avviando la transizione del potere.

È l’educata maniera di celebrare la democrazia al lavoro, nata più di 120 anni fa quando William Jennings Bryant inviò un cortese telegramma al neo-presidente William McKinley, due giorni dopo le presidenziali del 1896: «Il senatore Jones mi ha appena informato che il risultato indica la Sua elezione e mi affretto a porgervi le mie congratulazioni. Abbiamo sottoposto la cosa al popolo americano e il suo volere è legge».

Gentiluomini d’altri tempi – in realtà McKinley era un tosto figlio di buona donna, un reduce della Secessione appoggiato da Rockefeller, che come prima cosa dichiarò guerra alla Spagna per “liberare” Cuba e i suoi lucrosi zuccherifici.

DA ALLORA NESSUNO dei 32 presidenti dopo McKinley è entrato alla Casa Bianca senza essere preceduto dalla concessione dello sconfitto – ma nessuno dei messaggi di concessione ha mai contenuto la parola «sconfitta».

Con la vena di ipocrisia che segue conflitti a volte durissimi e meno che leali, la concessione ricompone discretamente lo scontro, affermando il più delle volte che siamo tutti servitori della stessa America – tutti classe dirigente dello stesso modello di sviluppo ineguale.

NELLA FILIGRANA del concession speech si può leggere la parabola della democrazia americana.

All’inizio solo telegrammi, sempre molto nobili: la grande pluralità, il più alto onore, il guardiano della pace… Poi nel ’44 Thomas Dewey «concesse» a Franklin Delano Roosevelt con un messaggio in diretta radio (il telegramma lo spedì Roosevelt: «Grazie per la sua dichiarazione, l’ho appena ascoltata»). Nel ’60 Richard Nixon tornò al telegramma: «Democratici e repubblicani si uniranno dietro al nostro presidente», ma in realtà inveiva contro John Fitzgerald Kennedy e contro suo padre Joe, che l’elezione del figlio – Nixon ne era certo – l’aveva comprata pagando il decisivo Illinois al sindaco di Chicago Daley. Nel ’68 Hubert Humphrey usò il telefono per riconoscere la vittoria di Nixon, ma già Thomas Dewey nel ’72 ritornò al telegramma, più adatto a nascondere il bruciore per aver perso contro lo stesso Nixon. Nobilissima la concession di John McCain, che nel 2008 in diretta tv riconosceva che la sua sconfitta dava vita a un momento storico: un nero alla Casa Bianca, Barak Obama.

AL GORE LA CONCESSIONE ha dovuto farla due volte. Il 4 novembre del 2000 aveva già telefonato a George W. Bush quando venne avvertito che in Florida accadeva qualcosa: tempo un’ora e Gore ritrattava, lasciando basita la direttrice della comunicazione di Bush, Karen Hughes, che borbottando «fk… unbelievable» andò a riferire. Iniziava l’incubo del riconteggio in Florida e dopo quaranta giorni infernali, il 13 dicembre Gore fu costretto a concedere di nuovo. Ma ormai aveva tracciato il solco della via giudiziaria alla presidenza, un solco in cui Donald Trump si è precipitato.

«La nostra democrazia sancisce il pacifico trasferimento del potere. Questo non solo lo rispettiamo, ma l’abbiamo caro»: quattro anni fa, Trump ha generosamente approfittato della concessione di Hillary Clinton. Ma non restituirà il favore. Secondo una fonte repubblicana della Cnn, né ora né mai. In mancanza di concession, il piano di Joe Biden è in una sua nota del settembre scorso: «Saremo perfettamente capaci di scortare gli intrusi fuori dalla Casa Bianca».