«Torneremo, in qualche modo». Una promessa, una minaccia, Donald Trump ha abbandonato la Casa bianca dopo quattro anni che hanno sconvolto l’America. Quattrocentomila morti di Covid e cinque morti nell’assalto al Campidoglio. Un milione di indennità di disoccupazione solo il mese scorso e il muro con il Messico. Quattordici milioni di sfrattati e la Borsa ai massimi storici. 155 milioni di elettori e le elezioni rubate. 143 perdoni presidenziali e un impeachment. Cosa resta di una rivoluzione? Perché lo è stata. Quattro anni fa erano un altro paese.

ALLE OTTO DEL MATTINO un elicottero ha trasportato dalla West Wing al vicino Maryland Donald e Melania – la borsetta di Hermes da 70mila dollari resterà nella memoria. Alla base Andrews, una ventina di dignitari superstiti del truculento turn-over trumpiano e pochissima gente. Tappeto rosso, salva di 21 colpi, guardia d’onore eccetera.

 

Tempo di traslochi alla Casa bianca (Ap)

 

A suo modo memorabile la colonna sonora: riecco Gloria di Umberto Tozzi nella versione di Laura Branigan, Y.M.C.A. dei Village People, My Way di Frank Sinatra. Stracciato il discorso di addio, poche parole a braccio poi scaletta, saluti, decollo e via verso Palm Beach, Florida.

Nelle terre più calde d’America c’è la Southern White House, la Casa bianca meridionale, la villa di Mar-a-lago. Sarà la nuova capitale dell’ultadestra americana – cioé quei circa 50 milioni che dopo un mese si sono dichiarati contenti di aver votato Trump. Cinquanta milioni di americani adulti che nemmeno l’assalto a Capitol Hill ha smosso dalla rivoluzione trumpista, qualsiasi cosa sia.

Non una parola su Joe Biden – non riconoscere la sconfitta è l’atto fondamentale del 45esimo presidente, la partenza al mattino presto serve a evitare ogni contatto con il 46esimo. L’ultima volta era successo nel 1869. Andrew Johnson era il vice di Lincoln, dopo l’omicidio del leader antischiavista comprò l’Alaska e lanciò la corsa al West pagando i pionieri con le terre degli indiani. Perse le elezioni contro Ulysses Grant, e seccato dal fatto che Grant non voleva arrivare al Campidoglio nella sua stessa carrozza, disertò la cerimonia di insediamento.

MAR-A-LAGO è una enorme villa, patrimonio storico degli Stati uniti, costruita negli anni Venti dall’ereditiera del gigante dei cereali General Food. Ha 126 stanze, 33 bagni e tre rifugi anti-bombe, giusto nel caso, su oltre 5.000 metri quadri, più o meno come la Casa Bianca vera. Oggi vale 160 milioni di dollari, Trump la prese per 7 (sette): comprò i terreni tra la villa e l’oceano e promise di costruirci talmente tanto da isolare per sempre la villa dal mare. È una reggia, una Camelot dove non abita re Artù ma il suo nemico Mordred. C’è persino una storica tavola, lunga nove metri e fatta di pietre dure – e no, non è rotonda.

 

 

Da quI Donald Trump vuole formare e gestire un nuovo partito. Vuole chiamarlo Patriot Party, secondo il Wall Street Journal che per primo ne ha fatto accenno ieri. Il “terzo partito” è una costante tentazione americana. Ne esistono solo tre con più di 100mila elettori registrati: il Partito Libertario, il Partito Verde e il Partito della Costituzione. Con i Libertari ci provò Ron Paul in tre presidenziali, raccogliendo niente. I Verdi candidarono Ralph Nader e per un pelo non vennero linciati per aver tolto pochi decisivi voti a Al Gore.

Ma king Donald ha già realizzato la saldatura tra la destra repubblicana in giacca, cravatta e bibbia sul comodino e quella in tuta mimetica e Ar-15 sopra il caminetto, vicino all’alambicco per la grappa fatta in casa. La saldatura tra il senatore Josh Hawley che mulinava il pugno davanti al Campidoglio incitando la folla, e gli Oath Keepers, i Three Percenters e i Bogaloo che di quella folla facevano parte.

 

OLTRE ALLE DECINE DI DEPUTATI e senatori a cui l’assalto squadrista a Capitol Hill non ha impedito di continuare a votare contro la certificazionne del voto, Trump può contare su numerosi amici che la giustizia federale sembrava aver tolto di mezzo. Nell’ondata di 143 grazie presidenziali concesse nell’ultimo giorno di presidenza – fino agli ultimi minuti prima del giuramento di Biden – c’è Steve Bannon, il suo stratega del 2016, perdonato per i soldi raccolti per il muro con il Messico e rimasti nelle sue tasche. C’è Elliott Broidy, uno dei principali raccoglitori di finanziamenti della sua campagna presidenziale, colpevole confesso di lobbying a favore di Cina e Malaysia.

Il consigliere legale della casa Bianca Pat Cipollone avrebbe sudato sette camicie per impedire a Trump di perdonare preventivamente se stesso, i suoi figli e parenti stretti, il suo avvocato Rudy Giuliani (sotto inchiesta per lobbying a favore dell’Ucraina) o i leader politici o di milizie coinvolti nell’assalto al Campidoglio. Ma a parte questo nei pardon presidenziali c’è un’accorta miscela di messaggi agli amici futuri: corruzione, armi e arricchimenti illeciti non sono poi queste gravi colpe.

C’è Robert Zangrillo, che aveva truffato la selezione a una grande università per iscrivere i suoi figli. Ci sono i rapper neri trumpisti Lil Wayne e Bill Kapri, colpevoli di porto illegale di armi. C’è l’ex sindaco di Detroit Kwame Kilpatrick, che aveva trasformato in municipio in una banca per sé e i suoi parenti. C’è lo scommettitore William T. Walters, che ha preso 5 anni per insider trading – ha assunto l’ex avvocato personale di Trump, John Dowd, un professionista del perdono a pagamento. Ci sono Rick Renzi, Robert Hayes e Randall Cunningham, presi per tangenti su contratti statali o militari.

Insomma c’è posto, alla corte di re Donald. Perché torneremo, in qualche modo.