E il quinto giorno Trump si occupò dell’Europa. A quattro giorni dall’insediamento, il 45mo presidente degli Usa ha lanciato una serie di esplosivi ordigni politici all’indirizzo del vecchio continente tramite intervista rilasciata al Times e al tedesco Bild, delineando con caratteristica nonchalance la decostruzione dell’allineamento transatlantico.

«IL REGNO UNITO ha fatto troppo bene a uscire dall’Unione europea», ha sostenuto Trump, descrivendo la Ue come un «veicolo della Germania» e prefigurando altre prossime scissioni da parte di paesi desiderosi di ritrovare una propria identità nazionale. All’assioma nazional-populista Trump ha aggiunto una ulteriore doccia fredda sulla Nato qualificata come «obsoleta, in quanto creata molti e molti anni fa e perché i paesi membri non pagano la loro equa parte». «Allo stesso tempo per me rimane un organizzazione importante». Le affermazioni in simultanea alla loro apparente negazione sono una caratteristica ormai assodata del neoeletto iconoclasta, ma l’elogio del Brexit e la velata minaccia all’alleanza atlantica hanno gettato lo scompiglio nelle capitali europee.

TRUMP HA POI RINCARATO la dose anticipando restrizioni ai viaggi di Europei in America ed evocando lo spettro di dazi di importazione imposti alla Bmw se darà seguito alla costruzione di auto nella fabbrica messicana di San Luis Potosì. «Sarebbe invece molto meglio» se decidesse di aprire un impianto negli Stati uniti, ha infine suggerito alla casa tedesca che in America impiega già una forza lavoro di 70.000 persone fra rete di vendite e assistenza e 8.000 operai nella fabbrica di Spartansburg in South Carolina.
Un intervento che conferma la rotta di collisione fra i continenti esplicitato il giorno stesso del summit mediorientale convocato a Parigi. Quella conferenza è stata aperta da François Hollande con l’auspicio di un continuato processo di pace imbastito sulla creazione di uno stato palestinese. Diametricalmente opposto quindi all’asse Trump/Netanyahu predicato sullo spostamento della ambasciata americana a Gerusalemme. E l’affondo di Trump è avvenuto anche nello stesso giorno della ultima visita di Joe Biden in Ucraina. Mentre il vicepresidente uscente si incontrava con Petro Poroshenko, Trump ha ribadito l’asse russo col consueto, laconico «vediamo se riusciamo a fare un po’ di affari con i russi».

LA FORMA E L’ENTITÀ della nuova «alleanza» rimane tutta da scoprire anche se Trump – che dovrà sentire Putin nei «primi giorni» della sua amministrazione – ha già aperto alla possibilità di allentare le sanzioni imposte dopo l’annessione della Crimea. Come fatica di un giorno, il panico seminato in Europa potrebbe presumibilmente bastare. Non apparentemente per Trump che contemporaneamente ha scelto il weekend di Martin Luther King per aprire un contenzioso con John Lewis, senatore della Georgia e figura storica del movimento per i diritti civili celebrata nella ricorrenza festiva di ieri.

LEWIS, EROE del Edmund Pettus bridge di Selma su cui marciò nel 1965 a fianco di King rimediandone un cranio fratturato dai manganelli degli sceriffi di Dallas county, ha testimoniato al congresso la scorsa settimana contro la nomina a ministro di giustizia di Sessions, un segregazionista dell’Alabama che si è espresso contro il voting rights act firmato nel 1965 da Johnson che rappresentò la principale vittoria politica di King. Il nuovo ministro di Trump si è anche espresso per un inasprimento delle pene che nei decenni precedenti a Obama hanno trasformato l’ipertrofico complesso penale industriale degli Stati uniti in un meccanismo di privazione dei diritti di neri e minoranze.

IN QUESTO QUADRO la scelta di Sessions esprime appieno il progetto politico della destra per contrastare l’inevitabile tendenza che vede i bianchi destinati a passare in minoranza demografica. La nomina di Sessions ha riaperto la pratica antica dei diritti civili e rievocato molti scomodi fantasmi americani. È da trent’anni quindi che un «Martin Luther King day» non assumeva un significato urgente come quello di ieri. Esprimendo i sentimenti di molti afro americani John Lewis ha dichiarato di considerare Trump «un presidente illegittimo». Il neoeletto caudillo non ha contenuto una replica su Twitter in cui ha detto che Lewis farebbe meglio a occuparsi del proprio distretto: «un crogiolo infernale di criminalità e lui sa solo parlare,parlare, parlare. Triste!». L’esternazione ha suscitato un ondata di sdegno, inducendo dozzine di politici (25, compreso lo stesso Lewis) a boicottare la cerimonia di insediamento – una altro record dell’era trumpista.
L’episodio ha esplicitato il soverchiante sottotesto razziale dell’ascesa di Trump e lasua strategia populista. Ma come quelle sull’Europa, le dichiarazioni hanno anche provocato nervosismo nella fazione «moderata» repubblicana. E allo stesso modo l’ala «tradizionalista» repubblicana rappresenta gli interessi globalisti di Wall Street e dei partecipanti dell’élite liberista riuniti proprio oggi a Davos, principale antagonista della corrente nazional populista e Alt-right incarnate dal braccio destroy e consigliere di Trump Steve Bannon.
Dopo gli ultimi giorni si ha più forte la sensazione che le sorti ultime del trumpismo si giocheranno sullo scontro fra queste due anime della destra americana.