A seguito del divieto imposto dal presidente Donald Trump tramite ordine esecutivo, Google ha deciso di seguire la linea politica e di togliere le licenze software e hardware alla Huawei, fatta eccezione per quelle open source.

Il tycoon americano ha infatti firmato il documento che vieta alla società cinese di acquistare tecnologia Usa se non dopo una specifica e mirata autorizzazione, nonché di vendere e installare le proprie infrastrutture negli Stati uniti, inserendo Huawei nell’elenco che comprende tutte le aziende considerate dannose per gli Stati uniti e che fanno parte le della cosiddetta «Entity list».

Quella del dipartimento del Commercio degli Stati uniti di inserire Huawei nella Entity list era una decisione attesa da tempo e andrà a rivoluzionare il mercato delle telecomunicazioni. E gli effetti non riguarderanno solo gli Usa.

L’ordine di Trump è stato ufficialmente motivato per questioni relative alla sicurezza nazionale: il tycoon, anche se non ha mai offerto prove a sostegno della sua particolare tesi, accusa la Huawei di fare spionaggio per conto del governo cinese. Con la sua mossa Google rispetta l’ordine del presidente e mette un carico ancora maggiore sulla decisione di Trump. Le ripercussioni di questa mossa si sentiranno anche sul precario equilibro tra Cina e Stati uniti.

Nel frattempo si è già scatenata una reazione a catena e altre società statunitensi hanno iniziato a tagliare Huawei; secondo quanto riferito da Bloomberg, anche Intel, Qualcomm, Broadcom e Xilinx hanno smesso di fornire chip a Huawei. La defezione di Intel è la più importante: significa che i laptop Huawei possono essere considerati praticamente morti. Sempre Bloomberg riporta che Huawei, avendo visto arrivare questo divieto, per limitare il danno ha accumulato tre mesi di processori prodotti da società statunitensi.

«La mossa dell’amministrazione Trump è molto più completa di quanto molti cinesi si aspettassero – ha spiegato al New York Times Nicole Peng, analista della società di ricerca tecnologica Canalys – ed è arrivato anche molto prima di quanto ci si aspettasse. Molte persone si rendono conto solo ora che è reale».

Se l’ordine esecutivo di Trump rappresenta per Huawei il pericolo di essere isolata dal resto del mondo – in quanto la Casa bianca vuole convincere anche altri Paesi a smettere di comprare dall’azienda cinese sventolando il pericolo spionaggio –, per Google la sua decisione rappresenta un cambio di rotta dall’essere un sistema aperto contrapposto a quello chiusissimo di Apple con i suoi iPhone.

Ma le esatte ramificazioni finanziarie che deriveranno da questa decisione sono al momento difficili da accertare. Si può però ipotizzare che ciò che perderà nelle entrate generate dalla vendita dell’accesso alle sue app sui telefoni Huawei, potrebbe essere compensato dalle vendite dei propri dispositivi nativi ed è probabile che Google non verrà distrutta dalla sua decisione su Huawei.

Certamente non è cosa da poco, però, il fatto che i grandi maestri del fascino globale di Internet stiano limitando l’accesso ad alcune delle piattaforme più versatili e accattivanti del web. Google ha dichiarato di non star facendo altro che rispettare i requisiti della legge statunitense. Ma come si sente questo autodefinito bastione della libertà di internet a essere costretto a compiere tale azione?

Quando nella Silicon Valley sono stati piantati i semi di quella che poi è stata la rivoluzione a cavallo di secolo – la rivoluzione rappresentata da internet – i frutti di quella rivoluzione, nella teoria di chi se ne occupava pragmaticamente, dovevano collaborare a costruire un mondo in cui ci sarebbe stata un’equalizzazione della conoscenza e il world wide web avrebbe dovuto godere di un accesso aperto e di una partecipazione aperta e a sua volta aprire opportunità accessibili a tutti.

L’obbedienza immediata di Google alla decisione di Donald Trump – che essendo stata presa tramite ordine esecutivo non è passata da dibattimento ma esprime la visione e il volere di un presidente americano che come conoscenza digitale ha solo l’uso smodato dei tweet – segna un duro colpo a quella visione di democrazia della rete che Google ha spesso sventolato.