È stata una manciata di delegati indipendenti che sciogliendo il riserbo hanno portato l’asticella oltre i fatidici 1.238 delegati necessari a sancire la nomination di fatto di Donald Trump.
Il traguardo annunciato è stato raggiunto con dieci giorni di anticipo sull’ultima tornata che concluderà una primaria convulsa ed imprevedibile col voto in California. Tra i democratici, sondaggi danno i due pretendenti testa a testa, ognuno col 45% delle preferenze. Il sistema «pilotato» delle primarie che assegna a Hillary un vantaggio istituzionale di quasi 500 superdelegati, assicura che il 7 giugno l’ex segretario di stato raggiungerà il numero di 2.383 grandi elettori necessari ad assegnargli la nomination.

Politicamente però molto è ancora in gioco in queste elezioni anomale, Sanders infatti continua ad esprimere con forza la voce di una sinistra rediviva decisa a non consegnarsi «pacificamente» all’establishment moderato.

Se Sanders dovesse riuscire a prevalere anche di misura in California, potrebbe porre in serio imbarazzo una Clinton costretta a celebrare la nomination nello stesso momento in cui perderebbe lo stato più grande, sottolineando ancora una volta la grande ambivalenza dell’elettorato verso la front runner.

I «rating» negativi sono d’altronde il dato soverchiante di questa campagna in cui i candidati di entrambi i partiti sono invisi a settori maggioritari dell’elettorato. Nei sondaggi nazionali il 54% esprime giudizio negativo sull’ex first lady e il 58% non ama Trump – entrambi record a recente memoria. Mai come quest’anno il voto esprimerà dunque una preferenza per il minore di due mali e le elezioni vedranno contrapposti il partito «never Trump» e quello «chiunque meglio di Hillary».

Su questo sfondo desolante la campagna Sanders spicca invece per propositività e per l’entusiasmo politico che ha saputo generare in ampi settori di quella che fu la Obama coalition (anche in California ad esempio gode di un vantaggio di 66%-27% fra gli under 45). In realtà quindi in questa elezione asimmetrica che rifiuta di conformarsi alle regole del bipartitsimo tradizionale si intravede una corsa a tre fra una candidate neoliberista, un nazional-populista e un progressista. Ieri Trump nel talk show di Jimmy Kimmel a Hollywood si è detto disposto a un dibattito con Sanders.

La sfida pensata come battuta per delegittimare Clinton è stata immediatamente raccolta da Bernie che in un tweet si è detto pronto ad organizzare il confronto. La campagna di Donald Trump continua ad essere il barometro del populismo retrogrado e xenofobo che sulle due sponde dell’oceano vive la maggiore recrudescenza dagli anni ’30. L’atterraggio di Trump in California è stato brusco cominciando con un comizio ad Anaheim a sud di Los Angeles, nella Orange County già roccaforte repubblicana di Nixon e Reagan ma da anni in forte transizione demografica.

Nel quartiere ormai a maggioranza ispanica il suo messaggio anti immigrazione ha provocato 19 arresti e le proteste che sono ormai il corollario costante dei suoi interventi. Disordini che prefigurano una militarizzazione della convention di Cleveland su cui potrebbero discendere migliaia di contestatori.
Per Trump rimane da completare una «riunificazione» con un partito ancora traumatizzato dalla sua ascesa. Senza avversari il miliardario ora è libero di concentrare il tiro su Hillary che da canto suo ha le sue belle gatte da pelare.

Ultima tegola per lei il rapporto dell’ispettorato del dipartimento di stato che ha condannato senza mezzi termini la gestione delle email illecitamente ospitate sul server personale durante il suo mandato da segretario di stato.

Alla riprovazione ufficiale si è aggiunta quella del Washington Post oltre a quella dei repubblicani. Una misura della vulnerabilità di una candidata che affronta le elezioni con vistose debolezze e con l’handicap storico di tentare un terzo mandato consecutivo per uno stesso partito. Dalla sua Clinton avrebbe invece, oltre alla volatilità dell’avversario, un collegio elettorale che nel conteggio dei grandi elettori, da cui dipende in definitiva l’elezione del presidente contiene un vantaggio «circoscrizionale» per i democratici. In base al sistema maggioritario per stati, i democratici a novembre dovrebbero poter contare su 242 «electoral votes».

A Hillary dovrebbe poter bastare insomma trovare un ulteriore 28 grandi elettori nella mezza dozzina di «swing states». Missione possibile dunque, almeno sulla carta, ma sicuramente non certa in un anno che ha confutato finora ogni pronostico.

E come se non bastasse non è ancora esclusa l’incidenza di un eventuale terzo partito. Un sondaggio del Wall Street Joural indica che il 47% degli elettori sarebbero disposti a prenderlo in considerazione e che fino al 10% potrebbe votare per il candidato che verrà presentato dal Libertarian Party il cui congresso comincia oggi in Florida. Un ulteriore possibile variabile in un panorama del tutto imprevedibile.