A due settimane esatte dall’insediamento di Donald Trump, Michelle e Barack Obama hanno ospitato alcuni «intimi amici» per una festa di addio alla Casa Bianca.

Fra gli ospiti Usher Jay Z, Stevie Wonder, Beyoncé, Oprah Winfrey, Samel L. Jackson e Bradley Cooper. Molte delle star, specialmente della musica (e dell’entertainement afroamericano) che sono stati «di casa» negli ultimi otto anni e che in tutta probabilità non torneranno presto alla Casa bianca.

Di certo non a giudicare dalla imbarazzante difficoltà che sta avendo Donald Trump a mettere insieme artisti per il concerto di «inaugurazione» del 20 gennaio. Attorno agli inviti del neoeletto presidente si è creato un vuoto pneumatico e una pioggia di rifiuti. Fra i pochi confermati, al momento, c’è il Mormon Tabernacle Choir – e perfino un membro di questo coro religioso mormone si è dimesso piuttosto che cantare per Trump. Il contrasto è un ulteriore sintomo della transizione presidenziale più singolare della recente storia Usa.

Sul versante politico è la «questione russa» a dominare la cronaca di un avvento, quello di Trump, che sta scompigliando ordini da tempo costituiti, a cominciare dal rapporto fra il presidente e il vasto arcipelago dell’intelligence (oltre venti agenzie raccolte sotto l’egida della National Security).

Ieri i direttori dello stato maggiore dell’intelligence militare hanno recapitato di persona il rapporto sulle «cyber-ingerenze» russe (ecco il testo desecretato, ndr) alla Trump Tower. Il dossier top secret commissionato da Obama è stato oggetto delle udienze cominciate mercoledì dalla commissione di inchiesta presieduta da John McCain. Il Senate Armed Services Committee ha palesato sul «fronte russo» la spaccatura fra Trump e la vecchia guardia dei falchi Gop offrendo lo spettacolo di due correnti in rotta di collisione.

Davanti alle telecamere, James Clapper direttore dell’intelligence nazionale, Marcel Lettre, sottosegretario della difesa per l’intelligence e Michael Rogers della Nsa hanno ribadito «oltre ogni dubbio» l’ingerenza russa nelle elezioni presidenziali con l’intento di favorire la vittoria di Trump.

Il rapporto top secret dei servizi indicherebbe un’articolata campagna di disinformazione orchestrata col diretto interessamento di Vladimir Putin per destabilizzare il processo democratico «attraverso il disseminamento di false notizie».

Parole pesanti e in diretta contraddizione coi tweet di Trump che da giorni denuncia il teorema del complotto russo e dileggia i servizi come «inetti e faziosi». Ieri, al New York Times, ha bollato il tutto come una «caccia alle streghe» politica.

L’ultimo polverone è stato sollevato dai tweet in cui il nuovo «commander in chief» ha citato Julian Assange per confutare il rapporto dei servizi: «Non sono stati i Russi», ha twittato Trump a proposito dei wikileaks sulla campagna Clinton, «Assange dice che avrebbe potuto farlo un quattordicenne» aggiungendo «la stampa disonesta fa credere che io sia d’accordo con Assange ma non è così; voglio solo che il popolo sappia ciò che lui dice per poter decidere da sé».

Nel surreale dialogo a distanza la replica è giunta in diretta dall’udienza al senato  dove James Clapper ha riconosciuto l’importanza di una vigilanza parlamentare ma ha precisato «c’è una differenza fra  vigilanza e interferenza». In una risposta diretta a Trump, Clapper sollecitato da McCain ha seccamente definito «inattendibile» Julian Assange.

Certo il pulpito di Clapper non è esattamente intonso.

Nel 2013, quando era direttore della Nsa, Clapper aveva ripetutamente  assicurato la stessa commissione che l’agenzia super segreta non aveva né mai avrebbe intercettato cittadini americani. Poche settimane dopo, le rivelazioni di Edward Snowden l’avevano clamorosamente smentito e relegato le sue menzogne alla stregua di quelle di Colin Powell sulle armi di distruzione di massa di Saddam Hussein nella tradizione di monumentali falsità (e strumentali ingerenze) di cui sono infarciti gli annali dell’intelligence Usa.

Ma la commissione ha sottolineato uno scontro ai vertici senza precedenti, e mentre Clapper sosteneva il lavoro dei suoi agenti, dalla Trump Tower trapelava già il nome del suo sostituto, il senatore Dan Coats, che Trump nominerà nuovo capo dell’intelligence.

Dal punto di vista del partito democratico che si appresta a fare i conti con una posizione di minoranza in ogni ramo di governo, la questione russa offre il vantaggio strategico di fare leva sulle oggettive spaccature fra la vecchia guardia dei falchi repubblicani e la squadra populista di Trump nella speranza di indebolire il fronte repubblicano.

Altre avvisaglie di potenziali fratture si sono avute questa settimana con l’insediamento del 115mo congresso. Il primo atto del parlamento controllato dai repubblicani è stato di abolire l’organo di vigilanza etica, una commissione indipendente che ha il compito di monitorare i conflitti di interesse dei deputati. La mossa è stata criticata dall’immancabile tweet di Trump («non hanno di meglio a cui pensare?») e si è rivelata alla fine un tale autogol per l’apparenza di palese, interessata, auto-tutela, da costringere i deputati a una precipitosa retromarcia.

Un errore di calcolo che potrebbe fare male al programma che dovrà cancellare l’opera di Obama.

Prima all’ordine del giorno, l’abrogazione della riforma sanitaria, ossessione conservatrice adottata come promessa centrale della campagna Trump. La cosiddetta «obamacare» ha in realtà mantenuto il sistema di previdenza privata, introducendo alcuni obblighi di copertura per gli assicuratori e sussidi pubblici. Un sistema misto e imperfetto che ha tuttavia esteso la copertura sanitaria a metà dei 40 milioni di Americani che ne erano sprovvisti.

L’altro ieri, dopo sessanta tentativi falliti negli ultimi tre anni, i repubblicani hanno finalmente potuto adottare la risoluzione per abrogarla (e con essa i sussidi federali per Planned Parenthood, la rete di consultori di salute per le donne).

Molto più complicato sarà implementare una nuova legge che non penalizzi milioni di americani, molti dei quali proprio quei «lavoratori esautorati» a cui Trump ha promesso di rendere nuovamente grande l’America.

Come se non bastasse, il presidente eletto ha fatto un apparente dietrofront anche sul famoso muro di confine da «far pagare ai Messicani»: «Anticiperemo fondi americani – ha affermato – il Messico ci rimborserà più tardi».