«Sebbene Israele sia deluso del mancato spostamento, per ora, dell’ambasciata Usa a Gerusalemme, apprezza l’espressione dell’amicizia di oggi del presidente Trump e il suo impegno a muovere l’ambasciata nel futuro». Benyamin Netanyahu ieri provava a fare buon viso a cattivo gioco dopo la decisione presa da Donald Trump di firmare il decreto che congela per altri sei mesi l’attuazione della legge – il Jerusalem Embassy Act – approvata dal Congresso nel 1995 che stabilisce il trasferimento della sede diplomatica statunitense da Tel Aviv a Gerusalemme, in modo da riconoscere la città, inclusa la zona Est (palestinese) occupata nel 1967, come la capitale di Israele. Il premier israeliano però non ha potuto trattenersi dal rivolgere una critica al presidente americano. «Il mantenere le ambasciate fuori dalla capitale (unilateralmente proclamata da Israele, ndr) – ha detto Netanyahu – allontana la pace mantenendo viva la fantasia palestinese che lo Stato e il popolo ebraico non abbiano connessioni con Gerusalemme».

Trump non ha mantenuto la promessa fatta in campagna elettorale e che aveva fatto brindare alla vittoria l’establishment politico israeliano. L’ambasciata Usa resta a Tel Aviv. Non cambia nulla. Per ora, sottolinea Netanyahu, però anche lui sa che persino il tycoon che si proclama un alleato di ferro di Israele e che il mese scorso, primo presidente americano in carica, ha visitato il Muro del Pianto nella zona Est della città, non può non tenere conto dell’eccezionale importanza che Gerusalemme ha anche per il mondo arabo e islamico. Nel momento in cui stringe i rapporti con le petromonarchie del Golfo in chiave anti-Iran, Trump ha scelto di sacrificare i desideri di Israele. Il governo Netanyahu ne è consapevole. Per questo non sorprende il forte disappunto del ministro Yuval Steinitz che ha accusato Trump di aver ceduto alle pressioni arabe. «Penso che sia il momento di mettere fine a questa mancanza – ha protestato – tutti riconoscono Gerusalemme come capitale d’Israele e quando Trump viene qui, va a Gerusalemme non a Tel Aviv». Steinitz, polemicamente, ha aggiunto di sperare che il trasferimento dell’ambasciata avvenga «prima dell’avvento del Messia». Una battuta che risponde alle assicurazioni del portavoce di Trump, Sean Spicer, certo che l’interrogativo non è più se la sede diplomatica sarà trasferita «ma quando». Deluso anche il sindaco israeliano di Gerusalemme, Nir Barkat, che si è detto «pronto a fare qualsiasi cosa per concretizzare la mossa».

In casa palestinese, o meglio dell’Anp del presidente Abu Mazen, ieri sera si cantava vittoria, come se Trump fosse davvero interessato a promuovere un accordo tra israeliani e palestinesi fondato sul rispetto delle risoluzioni internazionali. Nabil Abu Rudeinah, ha elogiato «il passo positivo e importante che – a suo dire – migliorerà le possibilità di raggiungere la pace». Quindi ha affermato la volontà dei palestinesi di «continuare a lavorare con il presidente Trump e la sua amministrazione per raggiungere una pace giusta e duratura». Abu Rudeinah sa bene che quella di trump è solo una mossa tattica per far riavviare il negoziato tra israeliani e palestinesi ed evitare uno scontro con il mondo arabo nel momento in cui l’Amministrazione Usa è impegnata, oltre a vendere armi per almeno 110 miliardi di dollari all’Arabia saudita, a formare un fronte arabo sunnita compatto contro l’Iran. Trump intende spostare l’ambasciata Usa ma solo quando lo riterrà più conveniente. E che il presidente americano non sia affatto neutrale tra israeliani e palestinesi, come vorrebbero far credere alcuni esponenti dell’Anp, lo dice lo stesso Abu Mazen che, secondo la stampa locale, avrebbe ammesso di essere finito sotto una valanga di accuse nel faccia a faccia che ha avuto con Trump il 23 maggio a Betlemme, perché secondo gli americani non ha fermato «l’istigazione contro Israele» come aveva promesso di fare durante la sua recente visita alla Casa Bianca.