Come annunciato Trump ha deciso di non certificate l’accordo sul nucleare iraniano del luglio 2015 sostenendo, con i toni cupi e apocalittici usati nel suo discorso d’insediamento, che Tehran non ha rispettato i termini dell’intesa.

Le ragioni apportate appaiono confuse anche se affermate con termini roboanti, come quando ha parlato del sostegno che questa repubblica, culla dell’Islam sciita, ha dato a al Qaeda, organizzazione sunnita.

Trump ha chiesto sanzioni alle Guardie Rivoluzionarie e aperto di fatto una finestra di 60 giorni durante i quali dovrà essere il Congresso a decidere, strategia rischiosa con un alto grado di difficoltà, come ha spiegato il segretario di Stato Rex Tillerson.

Il Congresso non ha una posizione unanime sull’IranDeal e non è detto che la maggioranza repubblicana la pensi come Trump, così come i generali di questa amministrazione. A cominciare dal capo del Pentagono, James Mattis, che continua a sostenere che Tehran ha rispettato i termini dell’accordo e che uscire non isolerebbe l’Iran, ma gli Stati Uniti.

L’approvazione di una nuova legislazione sull’accordo richiede 60 voti al senato: i repubblicani hanno bisogno del sostegno democratico, il che è fuori discussione. La retorica dell’arcinemico da combattere a ogni costo impedendogli di attaccare per primo non è condivisa dai democratici, da buona parte dei repubblicani e dai militari.

E tutta l’operazione di Trump è vista dai media come una mossa per mostrare di essere fedele alle promesse elettorali, dando al Congresso la colpa di un eventuale fallimento.

La reazione iraniana ieri ha anticipato Trump: «Reagiremo a qualsiasi azione contro le forze militari e le Guardie Rivoluzionarie», ha detto il ministero degli esteri, aggiungendo che nel caso di uscita Usa anche Teheran straccerà l’accordo.

Chi rischia più di tutti, però, è proprio Trump: in un Medio Oriente in rapida trasformazione, l’Iran ha azzeccato quasi ogni mossa. Per anni stretta tra sanzioni e embarghi, ma capace di salvaguardare la propria leadership, Tehran sta uscendo dall’isolamento in modo graduale ma costante.

Dal luglio 2015, dopo un’iniziale titubanza, ha siglato un accordo dopo l’altro con Stati e multinazionali. Turismo, infrastrutture, trasporti, energia, nuove tecnologie, ricerca: per le compagnie europee, russe e cinesi la società iraniana (80 milioni di persone) che si apre a un mondo che l’ha esclusa per decenni è una fonte di ricchezza di lungo periodo difficile da stimare.

La misura la danno le dichiarazioni degli altri firmatari: tutti contrari alla morte di un accordo che l’Iran rispetta e che ha permesso l’intreccio di rapporti utili a entrambe le sponde. E tutti concordi nel restare fedeli all’intesa, anche nel caso di un’uscita futura degli Usa.

«Non ci sono state violazioni, Trump non ha il potere di smantellarlo: non è un accordo bilaterale ma una risoluzione del Consiglio di Sicurezza Onu», il commento dell’Alto rappresentante Ue per gli affari esteri Mogherini. Toni simili da Russia, Germania, Francia e Regno Unito che si dicono «impegnate» a rispettare l’intesa.

Un’eventuale implosione farebbe saltare tavoli succulenti. Partiamo dall’Italia, a cui le sanzioni avevano congelato 25 miliardi di dollari in contratti, in parte riattivati a gennaio 2016 con la firma di 24 accordi da 17 miliardi in infrastrutture, ricerca, energia. Nel primo semestre del 2017 l’import di petrolio è salito da 39 a 1.394 milioni di euro e l’export ha segnato un +28% (da 662 a 850 milioni).

E se a investire sono i giganti, Eni, Enel, Saipem, Finmeccanica, significativo è l’accordo di luglio con Ferrovie dello Stato: 1,2 miliardi di euro (che diventeranno 5) per la costruzione di una ferrovia a alta velocità di 135 km tra Arak e Qom e una di 320 km tra Tehran e Hamadan.

Negli stessi giorni la francese Total e la cinese Cnpci firmavano un accordo ventennale (4,8 miliardi) per il giacimento offshore di gas South Pars.

E poi il memorandum con il Giappone per il giacimento Salman; l’arrivo di Peugeot e Renault; il coinvolgimento nella Via della Seta cinese (il tratto Teheran-Mashhaf sarà finanziato con 1,6 miliardi, parte di una linea di credito da 10 approvata a metà settembre); un pacchetto russo di investimenti da 30 miliardi; 10 accordi con la Germania che faranno toccare all’interscambio Berlino-Teheran quota 5 miliardi nel 2017, 10 miliardi in futuro