Nel suo discorso a reti unificate Donald Trump non ha annunciato lo stato di emergenza che, teoricamente, potrebbe dargli il potere necessario a finanziare il muro al confine con il Messico e porre fine allo shutdown che dura ormai da 20 giorni. Né ha offerto soluzioni per porre fine alla paralisi governativa.

Negli otto minuti di intervento, però, The Donald ha usato sei volte l’espressione «crisi umanitaria» e parlato di gang criminali che gestiscono «vaste quantità di droghe illegali» e che sono responsabili di «migliaia di morti», di un confine dove donne e bambini sono prede di «viziosi coyote e gang senza scrupoli», e soprattutto del popolo americano, vittima di un grande pericolo che si declina in mille modi diversi, ma tutti provenienti dal confine meridionale.

«Quanto sangue degli americani deve essere sparso prima che il Congresso faccia il suo lavoro? – ha chiesto Trump – Qui siamo di fronte a una scelta tra giusto e sbagliato, tra giustizia e ingiustizia. Il tema è se riusciamo a tenere fede al dovere sacro nei confronti dei cittadini americani che serviamo».

Il grande pericolo che arriva dalla frontiera sud è stato subito contestato via Twitter dal sindaco di New York Bill De Blasio: «Sono il sindaco del principale obiettivo terroristico del pianeta e lavoro da anni con la polizia di New York, l’Fbi e la Joint Task Force del terrorismo. Le minacce per il nostro Paese non provengono dal confine meridionale e un muro razzista non manterrà il nostro Paese al sicuro».

Tutte le affermazioni di Trump nel suo discorso dallo Studio ovale non sono state sostenute da dati sulla situazione alla frontiera, forse perché solo poche ore prima la sua amministrazione si era messa in imbarazzo da sola per tutta una serie di dichiarazioni mendaci: la portavoce Sarah Sanders aveva sostenuto che 4mila sospetti terroristi erano stati arrestati al confine, smentita poco dopo dalla consigliera della Casa bianca Kellyanne Conway, che ha definito la dichiarazione «uno sfortunato equivoco», il numero snocciolato da Sanders riguarda le persone fermate agli aeroporti. Trump aveva poi sostenuto che la necessità di costruire un muro con il Messico gli era stata confermata anche dagli ex presidenti, ma tanto Carter che Clinton, Bush e Obama hanno negato.

Trump da questo vicolo cieco non sa come uscirne: sono anni che parla di un muro che inizialmente avrebbero dovuto pagare i messicani e che ora deve essere finanziato con i soldi dei contribuenti Usa. Per far sì che questa promessa venga mantenuta è disposto a inventarsi una crisi inesistente, come fosse un’epoca in cui le informazioni sono trasmesse per tradizione orale, per cui si può sostenere qualsiasi cosa con poco rischio di smentita.

A smentirlo, invece, proprio in diretta tv e subito dopo di lui, sono stati la speaker della Camera Nancy Pelosi e il leader della minoranza democratica al Senato Chuck Shumer: Pelosi lo ha accusato di «tenere in ostaggio il popolo statunitense» inventandosi una crisi che non esiste e lo ha esortato a riaprire il governo. Ma Trump non mostra intenzione di tornare alla normalità. Fuori dallo Studio ovale lo aspetta l’indagine sul Russiagate del procuratore speciale Mueller, che sta arrivando alla conclusione.

Poco prima del discorso, a tenere banco era stata la notizia che l’ex presidente della campagna elettorale del tycoon, Paul Manafort, condivise con un suo ex socio di affari russo i sondaggi sulle presidenziali; il socio, Kosntantin Kilimnik, è legato al Cremlino e ai vertici dell’intelligence russa ed è accusato di spionaggio dall’Fbi. La notizia, emersa dalle carte dei difensori di Manafort, è stata sovrastata dal clamore del discorso apocalittico di Trump, che ha sortito quanto meno uno degli effetti voluti: distogliere l’attenzione da un’indagine reale con un’emergenza fittizia.