Continuano gli arresti domiciliari e il divieto di espatrio nei confronti del pastore americano Andrew Brunson, che da oltre 20 anni vive in Turchia e si trova al centro delle tensioni tra gli Stati Uniti e il Paese anatolico. La terza Corte penale di Smirne ha rigettato la richiesta dei legali difensori, che chiedevano che le accuse di terrorismo rivolte a Brunson fossero fatte decadere. Ankara reputa il religioso complice del network dell’imam Fetullah Gulen, che le autorità turche considerano la mente del tentato golpe del 2016. L’avvocato di Brunson, Ismail Cem Halavurt ha lasciato intendere, attraverso alcune dichiarazioni rilasciate all’agenzia Mezopotamya, che presenterà ricorso alla Corte costituzionale turca e, qualora anche questa strada fallisse, porterà il caso direttamente alla Corte europea dei diritti umani.

Non sembra quindi sbloccarsi l’impasse tra i due Paesi della Nato, nonostante il presidente americano Donald Trump sia tornato proprio ieri sul tema con un altro dei suoi tweet infuocati. «La Turchia ha tratto beneficio dagli Stati Uniti per molti anni. Ora stanno trattenendo il nostro splendido pastore cristiano, a cui ora chiedo di rappresentare il nostro Paese come grande patriota e ostaggio. Non pagheremo alcun prezzo per il rilascio di un uomo innocente, ma ritorneremo sulla (questione della) Turchia». Il portale Amerika’nin Sesi ha raccolto invece il messaggio del segretario del Tesoro americano Steven Mnuchin, che ha annunciato «ulteriori sanzioni se la Turchia non rilasciasse il pastore Brunson».

Alle nuove minacce americane hanno corrisposto nuove turbolenze sui mercati. La lira turca, dopo tre giorni di rapido recupero nei confronti delle monete forti, si è indebolita ieri di un ulteriore 6% rispetto al dollaro. Gli investitori sembrano dunque prendere sul serio le dichiarazioni giunte da Washington, che fanno il paio con le preoccupazioni circa i danni che una valuta turca così debole può arrecare all’economia del Paese.

La Turchia importa grandi quantità di energia pagata in valuta forte, mentre il debito contratto per anni in euro o dollari dalle aziende turche rischia di diventare sempre più insostenibile, in particolare per coloro che fanno profitti solamente in lire.

Questo non ferma le autorità turche dall’opporsi con ostinazione alle mosse americane. Il ministro delle Finanze Berat Albayrak, considerato il delfino del presidente Recep Tayyip Erdogan, ha annunciato che Ankara «continuerà a implementare politiche volte a neutralizzare gli attacchi economici e a rafforzare i fondamentali dell’economia».

E per la prima volta anche la Cina affronta ufficialmente la questione. Il ministero degli Esteri di Pechino ha rilasciato una nota nella giornata di ieri dove dichiara di aver preso atto della «nuova direzione dell’economia turca», affermando di credere nel recupero del Paese dalle sue «temporanee difficoltà finanziarie». Il ministero ha aggiungo anche che «la Turchia rappresenta un importante mercato energetico e la sua stabilità e il suo sviluppo recano benefici alla pace regionale». La televisione di Stato cinese ha inoltre annunciato che la banca dell’Industria e del commercio della Cina, pubblica, ha sottoscritto un accordo di finanziamento da quasi 4 miliardi di dollari con la Turchia. Accordo che per ora non ha trovato né conferme né smentite da parte di Ankara.

Nel frattempo continua la campagna di boicottaggio dei prodotti americani. Attraverso una circolare firmata da Erol Kaya, coordinatore per le amministrazioni locali del partito di governo Akp, i comuni hanno ricevuto l’ordine di astenersi dall’usare prodotti americani, in particolare quelli elettronici, rinunciando ad esempio ai pacchetti Microsoft in favore del o software grauito Pardus.

Le opposizioni in parlamento, finora tagliate fuori da ogni ruolo nella crisi diplomatica turco-americana, hanno dato voce a un primo embrione di contestazione del governo attraverso le parole del segretario repubblicano Kemal Kilicdaroglu. «Tutti sapevano che le difficoltà della nostra economia avrebbero condotto a questa crisi. Perché Erdogan non ha fatto nulla anche solo due mesi fa? Ha deciso di anticipare le elezioni (dello scorso giugno) per salvarsi». E torna sul caso Brunson: «Pensate che la lira recupererebbe se Brunson venisse rilasciato? Che il debito turco verrebbe ridotto? Il caso Brunson è il risultato dell’assenza dello Stato di diritto, crisi simili si ripeteranno in futuro se la Turchia non risolve questo problema».