Donald Trump, per generiche ragioni di sicurezza nazionale, ha firmato un nuovo TravelBan, con restrizioni più ampie rispetto alle versioni precedenti e un decorso indefinito, non più limitato a 90 giorni.

Il nuovo ordine esecutivo riguarda la maggior parte dei cittadini di Ciad, Iran, Libia, Corea del Nord, Somalia, Siria e Yemen e una parte di cittadini provenienti da Iraq e Venezuela. L’aggiunta di Paesi non a prevalenza musulmana sembra essere stata inclusa per aggirare l’obiezione principale che ha affossato i precedenti TravelBan, quella secondo la quale i decreti costituivano una discriminazione religiosa.

Nonostante questa brillante intuizione, l’ordine pare nascere per essere bloccato e contiene punti strategicamente oscuri che coinvolgono principalmente il Venezuela e l’Iraq: da mesi si era già stabilito quanto sia inapplicabile porre limiti a un Paese legato agli Usa da una guerra più che decennale.

La corte suprema ha dovuto cancellare l’udienza prevista per il 10 ottobre in quanto il nuovo decreto cancella quello su cui si sarebbe dovuta esprimere: il nuovo ban verrà ora sottoposto allo stesso iter dei precedenti, passando attraverso il vaglio delle corti minori.

Il nuovo ordine è molto più mirato di quelli precedenti; ogni Paese sarà soggetto a restrizioni diverse, anche se nella maggior parte dei casi i cittadini di tutti questi Stati non saranno più in grado di emigrare in modo permanente negli Usa e alla maggior parte sarà vietato di lavorare, studiare o andare in vacanza in America.

L’Iran sarà ancora in grado di inviare i suoi cittadini per scambi di studenti, ma saranno soggetti a una serie infinita di controlli. Ad alcuni funzionari governativi del Venezuela e alle loro famiglie verrà vietato di visitare gli Stati uniti; i somali, invece, non potranno emigrare negli Usa, ma potranno venirci in vacanza dopo solo qualche controllo extra.

Le nuove norme non si applicano ai residenti permanenti negli Stati uniti e i visti rilasciati non verranno revocati: gli studenti già su suolo americano potranno finire i loro studi e i dipendenti di imprese Usa potranno rimanere fino a quando i visti saranno validi. La stretta verso l’esterno si accompagna a quella di Trump verso i suoi cittadini, o almeno per la parte afro americana che lotta per i diritti civili.

Durante un comizio in Alabama, Trump si è riferito al giocatore di football Colin Kaepernick con termini offensivi e volgari che includevano sua madre, in quanto Kaepernick, per protestare contro le violenze della polizia nei confronti degli afroamericani, all’inizio della scorsa stagione aveva preso ad inginocchiarsi durante l’esecuzione dell’inno nazionale per segnalare che l’America non è uguale per tutti, gesto imitato da compagni, avversari e atleti di altri sport.

Poco dopo, via Twitter, Trump ha cancellato malamente l’invito fatto alla stella del basket Stephen Curry che, invitato a Washington dal presidente, aveva fatto sapere che non avrebbe partecipato.

In poche ore tutto il mondo dello sport Usa ha fatto gruppo difendendo i propri compagni e scagliandosi contro Trump. LeBron James, altra star, ha twittato: «Andare alla Casa Bianca era un onore, prima che arrivassi tu». Prese di posizione anche da parte di Kobe Bryan e Magic Johnson.

Se Trump avesse voluto organizzare una protesta per i diritti civili non avrebbe potuto fare di meglio: domenica molte squadre sono rimaste negli spogliatoi durante l’inno, moltissimi giocatori non solo afro americani si sono inginocchiati per la prima volta e gli altri si sono legati sottobraccio ai compagni, inclusi i sostenitori di Trump, come Tom Brady e il proprietario dei Patriots, in campo con i suoi atleti.

In ginocchio anche giocatori di baseball, volley femminile, cheersleader, cantanti dell’inno col pugno chiuso, veterani di guerra che hanno pubblicato le proprie foto in ginocchio sui social media.

Si sono inginocchiati durante i loro concerti anche il rapper Pharrell Williams, Eddie Vedder, frontman dei Pearl Jam, e dal palco del Global Citizen Festival di New York Stevie Wonder