Cari shithole countries vi scrivo. Donald Trump prova a rimediare all’incidente avvenuto con quei Paesi africani che si sono sentiti leggermente tirare in causa dalla sua uscita di qualche tempo fa sui «paesi di merda», o «cessi di paese» che tradurre si voglia, durante una riunione politica sull’immigrazione. Il presidente si riferiva ad alcuni Paesi in particolare, ma nel dubbio ora scrive a tutti, sfruttando l’occasione offerta dal vertice dell’Unione africana (Ua), in corso a Addis Abeba fino a domani.

LA LETTERA rivolta ai 55 leader africani mette le mani avanti di fronte alle critiche ampiamente annunciate nel corso del summit per l’uso di quelle espressioni sprezzanti. Lo stesso destinatario della missiva, il presidente della commissione Ua, Moussa Faki Mahamat, nei giorni scorsi assicurava che la questione non sarebbe passata sotto silenzio, aggiungendo parole dure: «L’Africa è profondamente scioccata da un messaggio di tale disprezzo».

Hai voglia ora a «sottolineare che gli Stati uniti rispettano profondamente i popoli dell’Africa», come scrive Trump. Che ribadisce l’impegno della Casa bianca al fine di stabilire «relazioni solide e rispettose con gli Stati africani in quanto nazioni sovrane» e annuncia a tale scopo un «lungo tour» del segretario di stato Rex Tillerson in marzo.

D’ALTRO CANTO sullo scenario africano odierno Trump si gioca un pezzo importante della sua strategia muscolare su commercio e “sicurezza”: passano di qui sia gli esiti della «guerra al terrore» che l’attuale amministrazione Usa ha se possibile intensificato sul terreno, sia il contrasto all’espansionismo cinese in tema di scambi commerciali, infrastrutture e accesso alle risorse del continente. Non è poca roba. Ora Washington ha un disperato bisogno di dare sostanza a quanto ripetuto a Davos su quel «prima l’America» che non equivarrebbe a «l’America da sola». E se l’attuale presidente cerca compagnia, è sicuro che in Africa non avrà difficoltà a trovarne.

CHE IL MOMENTO sia propizio a rilanciare alleanze lo si è capito anche dall’incontro rose e fiori avuto a margine del forum di Davos con il presidente-padrone del Ruanda, Paul Kagame. Un interlocutore degno del massimo rispetto, agli occhi di Trump: non solo manda in giro un numero assolutamente ragionevole di suoi migranti, ma è disposto anche a prendersi quelli, sgraditi, che Israele non può rispedire nei paesi di origine. Soprattutto un “amico degli amici”, quindi. Invidiabile, sempre dal punto di vista di «The Donald», perché vince le presidenziali con il 98,63% (prese il potere nel Ruanda attonito del post-genocidio, 17 anni fa, e ha da poco iniziato il suo terzo mandato), sapendo sbarazzarsi degli oppositori senza clamori, esercitando un autoritarismo tecnologico e smaliziato che tradisce forse amichevoli e privilegiate consulenze. Quindi altro che Ruanda «paese cesso».

BUON PER TRUMP dunque che sia proprio Kagame ad assumere la presidenza di turno dell’Unione africana, proprio in occasione di questa 30ma sessione ordinaria del vertice, che peraltro avrebbe in agenda anche cose serie – tralasciando la «lotta alla corruzione» -, come le crisi umanitarie generate dai conflitti in corso in Congo, Sud Sudan, Repubblica centrafricana ecc. E buon per Trump che il presidente egiziano Al Sisi, un altro alleato della Casa bianca non esattamente candidato al Nobel per la pace, da gennaio già controlli il Consiglio africano per la pace e la sicurezza istituito dall’Ua. A Addis Abeba presiederà la sessione intitolata «Approccio globale alla lotta contro la minaccia transnazionale del terrorismo in Africa», quella in cui gli Usa di Trump aspirano all’eccellenza.

L’ESCALATION dell’impegno militare americano in Africa lo raccontano anche gli ultimi dati sulle stragi di civili causate in Somalia dai raid contro al Shabaab. Oltre al contributo nella guerra sempre più multinazionale contro Boko Haram, in Nigeria. E al moltiplicarsi delle operazioni nel Sahel, fatto emergere recentemente dalla morte in battaglia di cinque marines in Niger. Paese nel quale il comando militare statunitense per l’Africa (Us Africom) continua ad avere la sua base operativa, in apparente armonia con le truppe a guida francese del cosiddetto G5 Sahel e alle velleità europee, Italia in testa, di arginare qui, a mano armata, il flusso dei migranti. Fatti gravi, non solo parole.