Nelle prossime settimane il Mar di Giappone sembra destinato a registrare un preoccupante aumento di presenze militari. Oltre alla flotta statunitense capitanata dalla portaerei USS Carl Vinson – che comprende anche tre navi lanciamissili e almeno una sessantina tra caccia ed elicotteri da guerra – secondo quanto riportato a Reuters da «fonti anonime» dell’amministrazione giapponese, anche Tokyo starebbe valutando la possibilità di spedire per «esercitazioni militari» alcune navi da guerra, in quella che dovrebbe essere una «dimostrazione di forza congiunta» in bella vista dalle coste nordcoreane.

Allo stesso modo, sempre per «esercitazioni congiunte» annunciate mesi fa, in territorio sudcoreano al momento stazionano migliaia di soldati e mezzi pesanti statunitensi e sudcoreani. Anche se le truppe statunitensi non sembrano ancora in allarme DEFCON – cioè tenersi pronte per l’azione e, contemporaneamente, organizzare l’espatrio dei civili statunitensi prima del conflitto – è chiaro che la strategia della tensione mediatica adottata da Trump sta premendo sul regime nordcoreano. «Verso la Corea del Nord stiamo inviando una “Armada”, una flotta molto potente…Abbiamo anche sommergibili, molto potenti, più forti della portaerei, vi assicuro», così il presidente Usa che ha aggiunto: «Kim Jong-un sta facendo la cosa sbagliata», così ha dichiarato ieri Trump in una intervista su Fox Business Network».

PRONTA LA REPLICA della Corea del Nord: «Siamo pronti a rispondere, a prescindere dal tipo di guerra voluta dagli Stati Uniti – aggiungendo – il nostro potente esercito rivoluzionario sta monitorando da vicino tutti i movimenti di elementi nemici». Di fronte a questa escalation di minacce la Cina, dopo aver smentito movimenti di proprie truppe al confine nordcoreano, è stata di fatto costretta a intervenire su due fronti, per interesse e per necessità.

Nella giornata di ieri infatti Xi Jinping ha telefonato a Donald Trump esortandolo di nuovo alla ricerca di una «soluzione pacifica» della questione nordcoreana; telefonata confermata dallo stesso Trump in un tweet, in cui il colloquio viene definito «molto buono».

CONTEMPORANEAMENTE, dalle pagine del Global Times – quotidiano cinese in lingua inglese espressione delle istanze più nazionaliste del Partito comunista cinese – è arrivato un durissimo monito a Kim Jong-un: in caso di un nuovo test nucleare, «la Cina reagirà con forza e non rimarrà indifferente a una nuova violazione della risoluzione del Consiglio di sicurezza dell’Onu da parte di Pyongyang» e sarebbe addirittura pronta a «bloccare le importazioni di petrolio dalla Corea del Nord».

IL CALENDARIO delle festività nazionali nordcoreane di certo non aiuta. Il prossimo 15 aprile, quando si dice la Carl Vinson possa raggiungere il Mar di Giappone, cade il 105esimo anniversario della nascita di Kim Il-sung – fondatore della Repubblica Popolare Democratica di Corea, «Eterno Generale e Segretario del Partito» e nonno di Kim Jong-un – celebrato come «Il giorno del Sole» in linea con la divinizzazione del primo leader nordcoreano; mentre dieci giorni dopo, il 25 aprile, sarà l’85esimo anniversario dell’Armata Popolare Coreana. Due appuntamenti che, in passato, sono stati entusiasticamente presi come pretesto per dare sfoggio della potenza bellica nazionale.

LA CINA STA CERCANDO in ogni modo di ridimensionare uno scambio di provocazioni rischiosissimo, con l’obiettivo di riaprire un tavolo negoziale per la denuclearizzazione dell’area e di Pyongyang, per sedersi assieme a rappresentanti di Corea del Nord, Stati Uniti e Corea del Sud. E assicurarsi, di conseguenza, che lo status quo della regione non venga radicalmente compromesso da un interventismo Usa di certo non disinteressato, come già evidenziato dall’installazione in corso del sistema antimissilistico Thaad. Che ha in questi giorni scatenato grandi proteste di massa dei pacifisti proprio nella Corea del sud che si vede messa in mezzo sul fronte di una nuova guerra. Inoltre, se per Washington si tratta di una misura protettiva per l’alleato sudcoreano, per Pechino i radar del Thaad sarebbero occhi e orecchie americane costantemente puntate sull’Asia Orientale: un’ingerenza intollerabile.

NON È DA SOTTOVALUTARE poi il fatto che la spinta provocatoria di Trump coincida con un enorme vuoto di potere a Seul, che il prossimo 9 maggio eleggerà il presidente che sostituirà Park Geun-hye, caduta in disgrazia a seguito di uno scandalo che sta trascinando a picco anche pezzi rilevanti dell’industria sudcoreana, a partire da Samsung. Un passaggio che suggerisce che gli Stati Uniti stiano intervenendo così massicciamente per scongiurare la vittoria del liberale Moon Jae-in. Moon, dato per favorito, è determinato a rimettere la Corea del Sud al centro dei rapporti bilaterali «subito e diretti» con Pyongyang, riprendendo le redini di una trattativa che determinerà un destino comune a tutta l’aria. Che, al momento, sembra essere deciso da tutti fuorché da Seul.