Il luogo migliore da cui guardare al viaggio di Trump in Medio Oriente è lo Yemen, simbolo della guerra per procura lanciata dall’Arabia Saudita a Teheran e del business militare che ha come perno gli Stati uniti.

Il presidente Usa arriva oggi a Riyadh con in tasca contratti di vendita di armi per 100 miliardi di dollari, mentre il devastato paese del Golfo piange altri 23 civili uccisi nell’ultima strage saudita.

Negli otto anni di presidenza Obama, la vendita di armi ai Saud si attestò sui 115 miliardi totali. Trump prevede un aumento considerevole (nel caso yemenita Washington amplierà anche il sostegno di intelligence e tecnologico, ufficialmente in chiave anti-qaedista), per plasmare la sua nuova creatura: una Nato araba sunnita, che includa ufficiosamente Israele e che ostacoli l’influenza dell’asse sciita.

Ieri il ministro degli Esteri saudita al Jubeir ha dettato i temi dell’agenda: guerra al terrorismo, lotta all’Iran e rafforzamento dei rapporti bilaterali (che passeranno anche per i 40 miliardi di dollari che Riyadh investirà in progetti infrastrutturali negli Usa, per sostenere quell’aumento dell’occupazione che Trump raccoglie sotto lo slogan ‘America First’).

La visita di Trump, del resto, non è stata organizzata a caso: domani e domenica sarà a Riyadh dove parteciperà ad un summit con 55 leader musulmani. Il 22 e il 23 volerà in Israele da Netanyahu per rassicurarlo sugli obiettivi anti-iraniani. Il 25 andrà in Vaticano e poi a Taormina per il G7.

Non andrà in Turchia. Ankara non commenta, ma il fastidio è palpabile. È stato espresso ieri con una richiesta pesante: il ministro degli Esteri Cavusoglu ha chiesto la rimozione dell’inviato Usa in Medio Oriente, Brett McGurk, accusandolo di sostenere le forze kurdo-siriane e il Pkk.