Più che di una visita si è trattato di una incursione: l’ultimo viaggio di Trump in California infatti è somigliato a un blitz in territorio nemico.

La missione aveva lo scopo di raccogliere fondi per il comitato di rielezione “Trump Victory” ma la visita è stata anche e soprattutto una palese provocazione politica nei confronti dello stato che più di ogni altro ha coalizzato la resistenza contro di lui, restando una spina nel fianco della sua amministrazione.

I contenziosi della Casa bianca con la California incarnano la lacerazione profonda di questo paese, esacerbato dalla presidenza Trump e dal suo regime fondato sull’esasperazione delle divisioni – politiche, culturali, razziali – che hanno ridotto allo stremo psichico gli Stati uniti.

Lo scontro con il Golden State, frontale sin dall’inizio, si è andato acuendo col passare del mandato e ancora più adesso che il presidente rialza i toni populisti in vista delle elezioni riavviando una campagna fondata sullo scontro e la polemica.

Sul confine fra California e il partner commerciale – il Messico – Trump vuole costruire un muro impenetrabile, nei quartieri della quasi maggioranza ispanica semina il panico con le retate. Le grandi città californiane – bilingui e biculturali – intanto si sono dichiarate “sanctuary cities”, nominalmente “neutrali” verso gli immigrati clandestini. Qui le forze dell’ordine non sono tenute a collaborare con gli agenti federali – retate e deportazioni vengono condotte unicamente dagli agenti della ICE (Immigration and Customs Enforcement) che dipendono da Washington.

Come per il mercato della cannabis, le giurisdizioni statali e federali sono paradossalmente contraddittorie.

Di recente la California è entrata sempre più a far parte del repertorio dei comizi in cui Trump ama escoriare le “élites hollywoodiane” e i traditori liberal davanti alle estasiate folle dell’hinterland. Oggetto preferito del ludibrio presidenziale sono le politiche ambientali – le pale eoliche che “causano il cancro” e “non tengono accese le TV” – e le norme per diminuire l’inquinamento atmosferico che “ossessionano” gli amministratori californiani.

La presidenza antiscientifica di Trump non poteva che essere fisiologicamente incompatibile col complesso tecnologico-industriale e la cultura californiana, tantopiù in campo ambientale.

La California ha avuto da oltre 40 anni la facoltà di imporre autonomamente normative specialmente in materia di inquinamento atmosferico grazie ad un’esenzione (waiver) concessa dal congresso che permette di eccedere i limiti federali. I 40 milioni di abitanti compongono inoltre il maggiore mercato automobilistico nazionale. Per accedervi l’industria automobilistica si è da sempre dovuta adeguare alle regole imposte dallo stato che finiscono così di fatto per diventare legge nazionale.

Grazie alle norme stabilite in California. le auto americane in 40 anni sono passate dai consumi antidiluviani di 5 km/litro del 1975 agli attuali 16 km/litro. Oggi l’obbiettivo dichiarato è di ridurre l’inquinamento fino al 40% al di sotto dei livelli del 1990 entro il 2030, entro quell’anno il target di consumi previsto per le auto sarà di 25km/litro.

Trump sta meticolosamente smantellando le tutele ambientali stabilite negli ultimi quattro decenni – e specialmente quelle dell’inviso Obama –  e ha anche annunciato quest’anno l’abrogazione degli standard federali sui consumi automobilistici. La California però ha categoricamente rifiutato di ingranare la retromarcia e a giugno ha annunciato un accordo separato coi maggiori costruttori per mantenere le severe norme statali.

Per il rottamatore della Casa bianca si è trattato di uno smacco e di un affronto intollerabile e questa settimana ha usato proprio la visita allo stato nemico per annunciare la revoca dell’esenzione ambientale allo stato. Come una dichiarazione di guerra, la mossa assicura un’ennesima azione legale nei tribunali federali (la California ne ha a oggi intentate più di 50) e promette di gettare nel caos l’industria che all’attuale stato confusionale preferirebbe una regulation ambientale comunque prevedibile su cui basare i piani industriali dei prossimi anni.

La guerra però ha diversi fronti.

La scorsa settimana il parlamento di Sacramento ha varato la legge AB32 che metterebbe fuorilegge le prigioni private in California. Una decisione epocale nello stato che ha dato di suo un forte impulso al complesso penale-industriale e allo sviluppo delle prigioni private.

Dopo aver beneficiato della deriva giustizialista e oltranzista iniziata in era Reagan, il settore in cui operano aziende come GEO Group e Corrections Corporation of America, rappresenta un florido business e una potente lobby a cui appartengono molti sostenitori di Trump che si contendono lucrosi appalti statali e federali.

Il mercato più florido per penitenziari commerciali è oggi tra l’altro quello dei centri di detenzione per immigrati – per le prigioni private le politiche di Trump sono state un toccasana.

La legge californiana potrebbe ora imporre la chiusura di almeno quattro tali strutture nello stato, essenziali all’arcipelago gulag costruito da Trump. È un’istanza che fino a poco fa sarebbe stata considerata di sinistra estrema ma che nella contrapposizione a Trump è entrata a far parte del programma di governo dello stato che ha dopotutto adottato poco fa l’obbligo di presentare dichiarazione dei redditi per iscriversi alle liste elettorali – un attacco diretto a Trump che notoriamente si rifiuta di rendere note la sue.

Il presidente, irascibile e permaloso, ha alzato il tiro, attaccando a testa bassa su una annosa piaga californiana: gli homeless. Il problema dei senzatetto è nazionale ma in California ha raggiunto livelli da emergenza a cui tutte le amministrazioni non hanno mai trovato rimedio. Il problema è particolarmente acuto a San Francisco e Los Angeles, città quest’ultima dove sono stati censite oltre 60.000 persone senza casa e dove le tendopoli su marciapiedi sono ormai fenomeno endemico.

Anche queste persone sono di recente entrate nel repertorio dell’oligarca populista che nei comizi ha preso a denunciare i senzatetto come una “vergogna intollerabile dei liberal californiani.”  Più come minaccia che come promessa, Trump ha di recente dichiarato di volerci pensare lui dato che gli homeless “danno fastidio agli investitori che acquistano edifici di lusso e gli tocca sentire puzza di straccioni”. “Lo so io come ripulire le strade,” ha dichiarato senza offrire maggiori dettagli.

Una visita non annunciata di emissari di Trump venuti ad ispezionare installazioni federali dismesse come basi militari e un edificio dell’aviazione civile (FAA) ha lasciato ancor più perplesse le autorità locali tenute al buio, e fatto immaginare altre retate ed ipotetiche reclusioni di massa.

È possibile che si tratti semplicemente dell’ultima sparata demagogica, un’ennesima battuta vacuamente celodurista del presidente post-democratico per strumentale calcolo: che la guerra a deboli e poveri siano le carte vincenti per imbastire un’altra campagna basata su odio e paranoia. Fatto sta che l’inasprimento del conflitto Trump-Californiano fotografa la spaccatura che attraversa il paese dopo 3 anni di trumpismo, una spaccatura profonda che rischia di mettere alla prova i limiti del federalismo nazionale.

I contenziosi (su clima, energia, immigrazione, pluralismo e multiculturalità) contrappongono lo stato più popoloso, laboratorio sociale dell’Ovest e un governo nazional populista, sempre più retrogrado e autoritario, un’idea progressista dell’esperimento americano e il progetto di involuzione trumpista che si prefigge di invertire la narrazione nazionale dirottandola verso il nativismo ed il darwinismo sociale.

Mentre Trump spinge per un anacronistico ritorno al carbone e al suprematismo, è significativo che sempre questa settimana in California sia  entrata in vigore una legge che tenta una prima vera regolamentazione della Gig Economy. Ancora una volta le normative californiane che impongono l’assunzione degli autisti Uber e Lyft con le tutele degli impiegati contraddicono direttamente le direttive del ministero del lavoro di Trump che aveva precedentemente indicato di voler invece favorire le aziende.

A favore dell’iniziativa californiana si sono espressi tra gli altri Kamala Harris, Bernie Sanders ed  Elizabeth Warren, pretendenti alla nomination democratica del 2020.  E le primarie della California  – anticipate a marzo (invece del solito giugno, quando i giochi sono già fatti) potranno quest’anno effettivamente incidere sulla selezione del candidato democratico.

L’elettorato fortemente motivato e “radicalizzato” dallo scontro con Trump, potrebbe favorire candidati di sinistra – come Bernie o la Warren – rispetto ai moderati. Ancora un volta cioè la California potrebbe giocare un ruolo primario nel plasmare il futuro del paese.