La cosa più strana del discorso sullo Stato dell’Unione di martedì sera è che poteva sembrare perfino «normale», come osserva David Graham su The Atlantic. La più rimarchevole cosa sul discorso di Donald Trump è che «non è stato particolarmente rimarchevole», ha notato Susan Page su UsaToday.

Insomma, un discorso convenzionale. Pronunciato dal presidente più non convenzionale della storia americana. Un Trump che usa la parola «noi» 130 volte e «io» 35 volte è irriconoscibile rispetto alla sua consueta maschera. Il risultato? Non i soliti 180 caratteri dei suoi ormai mitici tweet, ma 5.200 parole di noia irritante. Gli 80 minuti di oratoria ascoltati martedì sera si sono rivelati un goffo tentativo per cercare di riannodare qualche filo di comunicazione e collaborazione tra le istituzioni e tra le forze politiche, dopo mesi burrascosi dedicati a picconare le une e le altre.

Trascorso un anno con Trump il sovversivo, ecco un nuovo anno, quello in arrivo, del Trump dialogante. Chi ci crede? Forse i repubblicani che esultano, immaginando di averlo finalmente domato.

Non ci sarebbe neppure bisogno di analizzarlo nei dettagli come hanno fatto i media statunitensi, per cogliere dietro i toni più concilianti le solite bugie e tutti i punti salienti che hanno tracciato fin qui il percorso di Trump e che hanno spaccato l’America.

IL PRESIDENTE Donald Trump tende la mano ai democratici, dicendosi pronto a negoziare, ma è evidente che, per lui, trattare significa che l’interlocutore s’acconci alle sue idee, ottenendo qualche piccola concessione a suo favore. Come, appunto sul tema dell’immigrazione che ha occupato il grosso delle parole pronunciate dal presidente: un compromesso, ha proposto, che legalizzi i dreamers, un milione e 800 mila immigrati arrivati da bambini negli Stati Uniti.

IN CAMBIO ha rilanciato il muro con il Messico, nuovi limiti all’immigrazione su base familiare e la fine della lotteria per i paesi sottorappresentati. Il tutto condito con menzogne propagandistiche come la possibilità per un immigrato di farsi raggiungere da «un illimitato numero di parenti distanti» (in realtà, sono possibili solo ricongiungimenti con coniugi, genitori e figli) e l’affermazione secondo cui la lotteria per l’immigrazione sia incontrollata (non è vero, chi la vince deve poi sottostare a lunghe verifiche). E che «le frontiere aperte hanno consentito a droga e a bande criminali di inondare le nostre comunità più esposte».

D’altra parte, il discorso non è stato forse scritto da Stephen Miller, il trentaduenne speechwriter di Trump, il consulente più ascoltato dal presidente dopo l’uscita di Steve Bannon, e che tutti considerano l’anima nera nella Casa bianca proprio sulla questione dell’immigrazione?

Ma anche immaginando un’improbabile correzione di registro da parte di Trump, lo stesso spettacolo che si svolgeva di fronte all’oratore era la risposta più plastica e immediata all’idea stessa della possibilità di riconciliazione.

NELLA DESTRA dell’emiciclo deputati e senatori prevalentemente maschi e bianchi, in abito scuro e cravatte sgargianti, come quella del presidente, pronti all’applauso a ogni passaggio del discorso, in particolare quando si è vantato di aver cancellato il punto nevralgico dell’Obamacare, l’obbligatorietà individuale dell’assicurazione sanitaria. Dall’altra parte dell’emiciclo gran parte delle parlamentari democratiche, sempre sedute e in silenzio, vestite a lutto con spille e sciarpe per protesta e solidarietà con il movimento #MeToo, a fianco di deputati e senatori neri, anch’essi seduti, offesi dalle parole rivolte da Trump ad alcuni paesi africani, definiti in un incontro nello studio ovale «cessi di paesi».

MA È STATO sull’economia che Trump ha alzato di più la cresta, riferendosi agli effetti del «più grande taglio delle imposte nella storia americana» che «fornirà enormi benefici ai ceti medi e alle piccole imprese». Ad avvantaggiarsene sono in realtà le imprese. Per le famiglie è tutt’altro discorso.

E così per i tre milioni di lavoratori che hanno ricevuto «premi legati agli sgravi delle tasse»: andranno ad aumentare i salari mensili o si riveleranno un bonus una tantum? La stessa alterazione della realtà a proposito delle aziende che tornano a investire in America, e qui i numeri sono a dir poco opinabili. L’esempio è quello della Apple, nell’immaginario diventata un po’ l’emblema dell’impresa obamiana, adesso passata sotto le bandiere trumpiste per via degli sgravi fiscali e delle facilitazioni al rientro dei capitali. Trump ha detto che l’azienda fondata da Steve Jobs investirà 350 milioni nei prossimi anni, assumendo ventimila persone. Ma questa è la stima aziendale del contributo che darà all’economia statunitense, mentre l’investimento diretto promesso è di trenta miliardi di dollari, e non c’è termine di paragone con il passato, dal momento che Apple non ha mai rivelato i suoi dati.

SULLA POLITICA internazionale niente di nuovo, né c’erano aspettative in tal senso, rispetto a un presidente che non ha mai espresso una visione del mondo e del ruolo dell’America nel mondo, tanto meno una «dottrina», ma sempre batte sugli stessi tasti.

L’ULTIMA fissazione è lo spostamento dell’ambasciata americana a Gerusalemme, una decisione che finora non ha avuto altro effetto se non quello di gettare altra benzina nel fuoco nella regione mediorientale. E qui torna il Trump che usa il dollaro come arma di ricatto esplicita: «I paesi che ci hanno votato contro (alle Nazioni unite ndr) ricevono da noi venti miliardi di dollari di aiuti l’anno. Chiedo che il Congresso passi una legge che assicuri che i soldi in futuro vadano solo ai nostri amici, non ai nemici». Ma non è il Trump di sempre?