«Un nuovo giorno per l’America» potrà pure suonare come una frase di circostanza, specie se detta da una politica vecchia scuola come Nancy Pelosi, eppure condensa molto bene quel che è successo martedì, nelle elezioni di medio termine. L’America volta dunque pagina. Trump ha voluto un referendum. E l’ha perso. Il responso del voto popolare è ancora più duro: dà sette punti ulteriori di vantaggio al partito dell’asinello, un’affermazione alla camera molto maggiore di quanto non dicano risultati condizionati da un sistema elettorale che penalizza l’elettorato democratico.

In un quadro così sarà molto più difficile, per The Donald, continuare a «fare Trump». Un personaggio come l’attuale presidente degli Stati uniti ha potuto debordare oltre i limiti imposti al suo ruolo perché poteva contare su un Congresso servile, occupato da un partito senza linea, se non quella dettata dalla destra evangelica e dall’elettorato rurale. Ma adesso?

La lezione delle midterms gli impone un cambio di passo e di stile, ma l’uomo è capace di adattarsi alle nuove circostanze, al nuovo rapporto di forze?

Non ci proverà neppure, a giudicare dal primo tweet, in cui minaccia la nuova maggioranza democratica di ritorsioni in caso di apertura di inchieste parlamentari a suo carico sulla scia dell’indagine condotta dal procuratore Mueller. Trump paventa addirittura un intervento da parte dei senatori nei confronti dei deputati democratici.

Quindi nel conflitto tra camera e Casa bianca entrerebbe anche l’altro ramo del Congresso in uno scenario di guerra istituzionale senza precedenti.

Al tempo stesso cerca infantilmente di seminare zizzania in casa democratica, promettendo voti repubblicani in soccorso a Nancy Pelosi per la sua elezione a speaker della camera, contando sul fatto che la sinistra e i nuovi parlamentari democratici gradirebbero un cambio al vertice della House.

Il che è anche il segnale che il comportamento di Trump dipenderà molto anche da quel che farà il Partito democratico, da come saprà gestire questa che è una sua indubbia vittoria, un successo che vale il doppio se commisurato in rapporto alla crisi nera del periodo seguito alla sconfitta del 2016 e di fronte alla quale sembrava non riuscisse a trovare più la forza per rialzarsi.

E invece, in due anni tutti in salita, conquista la maggioranza alla camera, e al senato ottiene risultati interessanti, in una sfida davvero impossibile per la riconquista della maggioranza (che anzi vede rafforzata quella detenuta dai repubblicani).

A questo successo vanno aggiunti altri di grande rilievo, come la vittoria in California di Gavin Newsome. È la conferma che il «Golden State» continua nella sua rotta progressista agli antipodi del trumpismo.

Importante anche l’elezione di Jared Polis, governatore del Colorado, il primo dichiaratamente gay a ricoprire un simile incarico. Di converso due pesi massimi repubblicani come Kris Kobach e Scott Walker perdono in Kansas e Wisconsin la corsa per la poltrona di governatore. Sono risultati che irrobustiscono la nuova maggioranza alla camera.

Il Partito democratico deve molta della sua capacità di ripresa a una mobilitazione dal basso che, in molte realtà locali, ha significato la messa in discussione e in minoranza dei potentati che finora avevano fatto il bello e il cattivo tempo nel partito.

Notevole l’affermazione di tante donne, molte delle quali molto giovani e appartenenti a minoranze, come Alexandria Ocasio Cortez a New York, l’africana americana Ayanna Pressley a Boston, l’araba americana Rashida Tlaib in Michigan, la somala americana Ilhan Omar.

Il voto femminile ha contato molto nella partecipazione eccezionale al voto: 114 milioni di elettori, contro gli 83 delle ultime midterms. Un’affluenza record che conferma il valore di referendum assegnato a questa consultazione, che proprio per questa sua peculiarità non è paragonabile a tutte le precedenti midterms.

Questo voto, infatti, è stato seguito in tutto il mondo con l’interesse riservato alla sfida presidenziale.

Anche per i riverberi che potrebbe avere sulla politica estera della Casa bianca, come via di distrazione da un esito negativo, e già infatti lo indicano alcuni movimenti in corso. Come il probabile prossimo rimpasto del gabinetto, con l’uscita di ministri che «The Donald» non sopporta o che considera ingombranti: il guardasigilli Jeff Sessions e il capo del Pentagono James Mattis.

E Sessions si è già dimesso, su richiesta di Trump. Il presidente si prepara così allo scontro molto duro, inevitabile, che s’aprirà sull’indagine del procuratore Mueller, sulla quale, secondo Trump, Sessions non ha fatto quanto poteva per contrastarla e farla affondare. L’uscita di «cane pazzo» – il generale Mattis – deve preoccupare perché, per quanto strano possa sembrare, nel team che s’occupa di politica internazionale e sicurezza è un elemento di moderazione rispetto agli «Stranamore», il segretario di stato Mike Pompeo e soprattutto il consigliere per la sicurezza nazionale John Bolton. Se poi al licenziamento di «cane pazzo» s’aggiungerà quello di John Kelly, il generale dei Marines capo dello staff alla Casa bianca, significa che i militari, che finora hanno tenuto a freno le intemperanze del presidente, lasciano tutto lo spazio a guerrafondai senza inibizioni.

E sì, c’è chi vuole minimizzare quel che è successo martedì, come fosse un pareggio calcistico.

Qui c’è una sconfitta, con conseguente escalation della guerra civile già in corso e che da questo momento in poi potrebbe coinvolgere non metaforicamente, ma militarmente, parti importanti del mondo.