L’Europa chiede rispetto per chi manifesta, la Russia si defila, Stati uniti e Israele gongolano e vanno all’attacco: si potrebbero riassumere così le reazioni internazionali alle proteste in Iran, dallo spettro composito, spontaneo per certi versi, eterodiretto per altri.

Il presidente Trump, acceso sostenitore della guerra (che sia politica, economica o – chissà – militare) a Teheran non ha atteso un secondo per lanciarsi contro la leadership iraniana. L’ultimo intervento è di ieri, come sempre via Twitter: «L’Iran sta fallendo ad ogni livello malgrado il terribile accordo fatto con l’amministrazione Obama. Il grande popolo iraniano è stato represso per tanti anni. Assieme ai diritti umani la ricchezza dell’Iran viene saccheggiata».

Torna il vero obiettivo di questa amministrazione: non le richieste del popolo iraniano, quali esse siano, ma lo smantellamento di un’intesa storica, quello sul nucleare siglato nel 2015 e vittoria diplomatica del predecessore, che ha permesso a Trump di puntellare le relazioni dietro le quinte tra i paesi sunniti dell’area e Israele.

Una narrativa nota e stantia, a cui Tel Aviv si aggangia in assenza di altri nemici con i quali giustificare militarizzazione e «politica di accerchiamento»: con Hamas all’angolo e alle prese con una difficile riconciliazione con l’Anp di Abu Mazen, le autorità israeliane lavorano da mesi all’accensione delle tensioni con Hezbollah e il suo alleato-ombrello, l’Iran.

Ieri il ministro dell’intelligence Katz ha spostato – pratica usuale – l’attenzione su Tel Aviv («Se la gente riuscirà ad ottenere libertà e democrazia, le tante minacce a Israele e alla regione spariranno»), mentre il primo ministro Netanyahu parlava di «coraggiosi» manifestanti che «vogliono le libertà negate da decenni».

Resta sul vago la Russia, alleata regionale dell’Iran in Siria, sul piano militare sì ma anche su quello del business economico: «Si tratta di affari interni iraniani – si è limitato a dire in un comunicato il ministero degli esteri di Mosca – Speriamo che non degeneri in uno scenario di sangue e violenza».

Ognuno veste i panni che meglio gli si confanno. Non fa eccezione l’Europa che a cinque giorni dall’inizio delle proteste non si è pronunciata. L’imbarazzo del presidente Rouhani è quello di Bruxelles, strenua sostenitrice dell’accordo sul nucleare e soprattutto dell’attuale governo iraniano.

Rompendo la tradizionale «dipendenza» dalla politica estera Usa, la Ue si è messa di traverso alle dichiarazioni a effetto della Casa bianca, da ultimo il discorso del 13 ottobre scorso in cui Donald Trump ha annunciato di non voler certificare l’intesa sul nucleare del 5+1, buttando poi tutto sulle spalle del Congresso, che in 60 giorni da quella data dovrà decidere se introdurre nuove sanzioni o lasciar correre.

L’Europa non ha alcun interesse ad isolare di nuovo l’Iran. Né sul piano della stabilità regionale (consapevole del ruolo di pivot che Teheran gioca in molte crisi mediorientali) né tantomeno su quello del business. Dal luglio 2015 i paesi europei hanno immaginato di fronte a sé praterie su cui far correre le imprese europee. Un paese che si apre al mondo, di giovani, di opportunità in ogni settore, turismo, nuove tecnologie, prodotti alimentari, trasporti, ricerca.

Domenica il direttore della Compagnia iraniana di sviluppo del gas, Hassan Torbati, ha parlato all’agenzia Tasnim dei piani in fieri per la fornitura diretta di gas dalle regioni occidentali all’Europa, via Turchia e Iraq, nell’ambito dello sviluppo del bacino South Pars. Gas e greggio di cui l’Europa è affamata: nel 2017 il 38% dell’export di petrolio (130 milioni di barili) è finito in Europa, in particolare a Italia, Gran Bretagna, Ungheria e Olanda.

Non solo: tra le prime aziende a catapultarsi in Iran ci sono quelle automobilistiche (Peugeot e Renault in prima fila), alla caccia di un mercato di 80 milioni di persone; quelle ferroviarie (l’italiana Ferrovie dello Stato ha stipulato un accordo da 5 miliardi di dollari per una ferrovia ad alta velocità di 135 km tra Arak e Qom e una di 320 km da Teheran e Hamadan); quelle energetiche ovviamente, tra cui Eni e Enel, ma anche Total che in estate ha firmato un’intesa di 20 anni con l’iraniana Petropars e la cinese Cnpci, 4,8 miliardi di dollari proprio per lo sviluppo di South Pars, 335 miliardi di metri cubi di gas naturale e 290 milioni di barili di condensati.

Una ricchezza a cui si aggiungono altri 50 giacimenti sparsi nel paese e per lo sviluppo dei quali a Teheran servono investimenti stimati in 100 miliardi di dollari. Da cercare, ça va sans dire, tra investitori stranieri. Europei in prima fila.

Ma manca un tassello: del denaro annunciato una buona parte è ancora sospesa. Tanti progetti restano sulla carta, nel timore che le sanzioni rimangano dove sono e a causa dell’effettivo limite dovuto a quelle esistenti su banche e istituti finanziari iraniani.

Da qui il gap di liquidi che impedisce al moderato Rouhani di rispettare le promesse di redistribuzione delle ricchezze e aumento occupazionale.