Dice Trump che Usa e Cina sono «in mezzo a una lunga contrattazione», ma intanto un primo atto di guerra commerciale è partito. Ieri il presidente americano pur riconoscendo la «grande amicizia» con il presidente cinese Xi Jinping e con la Cina in generale, pur ammettendo l’importanza di Pechino in merito alla crisi coreana, ha posto un «ma» che pesa come un macigno.

DOPO AVER DEFINITO «un orrore» il disavanzo commerciale con la Cina (Washington importa molto più di quanto esporti in Cina), al termine di un’indagine partita lo scorso agosto (tramite la sezione 301 dello Us Trade Act, che permette indagini e l’imposizione dimisure), ieri Trump ha dato il via libera alle sanzioni contro un migliaio di prodotti cinesi, puniti da dazi che dovrebbero avere un valore di 60 miliardi di dollari (sugli oltre 300 di disavanzo commerciale). Ora – in un mese circa – il mondo del business americano potrà commentare questa decisione che diverrà poi operativa.

LE SANZIONI vanno a colpire il cuore delle esportazioni tecnologiche cinesi negli Stati uniti, specie il settore della telefonia mobile; significa che per Huawei – ad esempio – potrebbero arrivare brutti segnali dal mercato americano. Insieme agli smartphone saranno colpiti i prodotti più innovativi, ovvero quanto costituisce lo scheletro di quel programma, «Made in China 2025», che costituisce uno dei tanti timbri di Xi Jinping alle attuali ambizioni di Pechino: robotica, aviazione, tecnologia elettronica e prodotti aerospaziali,

NON È DETTO che questo basti: potrebbero arrivare altri dazi, benché alcuni ambiti economici americani abbiano già segnalato il rischio di queste operazioni. «Non spariamoci a un piede» hanno fatto sapere alcuni congressmen con riferimento alle possibili ritorsioni: il mondo dell’agricoltura, per dirne uno, nei giorni scorsi ha fatto sapere di essere vulnerabile a eventuali ritorsioni cinesi: si tratta di una delle basi sociali del voto pro Trump alle ultime elezioni. Senza contare le «vendette» che Pechino può gustarsi contro le aziende americane in casa propria, attraverso controlli e cavilli burocratici capaci di mettere al tappeto parecchi business americani.

SECONDO WASHINGTON la decisione va a riportare «giustizia» laddove il Wto avrebbe mancato di operare («The Donald» non ha mancato di lanciare una bordata contro l’istituzione mondiale): secondo i report pervenuti a Trump, la Cina imporrebbe condizioni di svantaggio per le aziende americane, rendendo arduo l’ingresso nel mercato cinese e si eserciterebbe da tempo nel furto della proprietà intellettuale.

«TREMENDOUS», è la parola che Trump ha usato in tre occasioni, a sottolineare un passo decisivo nelle relazioni tra i due paesi. La Xinhua, l’agenzia di stampa cinese, poco dopo la conferenza ha definito «da bulli» l’atteggiamento degli Usa: un inizio del confronto niente male. Ma prima di specificare quanto trapelato da Pechino nelle ore che hanno preceduto la comunicazione di Trump (alle nostre 17 e 30, quindi di notte in Cina) è bene ricordare i tanti punti di frizione tra i due paesi; il «carico» commerciale va infatti a inserirsi in un equilibrio piuttosto fragile nonostante i tentativi di Trump di dirsi amico di Pechino. In questi giorni tra i due paesi è in corso una sotterranea battaglia su Taiwan: Xi Jinping aveva tuonato contro «chi ci vuole dividere», proprio dopo l’approvazione di un accordo tra Usa e Taiwan volto a incrementare gli incontri diplomatici.

SI TRATTA DI UN SEGNALE con il quale Washington vuole disturbare la Cina, fingendo di dimenticare il proprio riconoscimento, avvenuto nel 1979, di «una sola Cina». In tutta risposta Pechino ha spedito la sua portaerei nello stretto di Taiwan. E il Global Times – quotidiano ultranazionalista cinese – senza giri di parole ha specificato che su Taiwan la Cina «è pronta a combattere». Sulla questione coreana tutto è ancora appeso, tranne la distanza delle posizioni proprio tra Xi Jinping e Trump: la Cina vuole che gli Usa abbandonino il progetto dello scudo antimissile; ipotesi che la Casa bianca non pare proprio prendere in considerazione. Infine la questione commerciale, anticipata da mezze parole e divenuta reale – davvero – solo ieri.
Per capire la distanza concettuale: secondo Pechino «le guerre commerciali finiscono per non avere mai un vincitore». Per Trump «le guerre commerciali fanno bene e si possono anche vincere facilmente».

LA CINA durante questa settimana le ha provate tutte: prima ha messo in guardia Washington dicendosi pronta a reagire da par suo (non dimentichiamo che la Cina detiene gran parte del debito americano), poi ha provato incredibili aperture, proprio alla vigilia dell’annuncio di Trump: il console generale cinese a New York, Zhang Qiyue, aveva dichiarato che Pechino allenterà barriere commerciali all’ingresso di investitori stranieri nel settore finanziario e uniformerà gli standard per le banche nazionali e straniere: «Introdurremo molte altre misure quest’anno, e alcune di queste supereranno le aspettative di aziende e investitori». Non basterà.