«Con il mullah ho un buon rapporto». Così il presidente Usa, Donald Trump, commentando la telefonata – di «35 minuti», sottolinea la propaganda talebana – con mullah Abdul Ghani Baradar. Il numero due dei Talebani e capo della delegazione politica che per mesi ha discusso a Doha, in Qatar, con l’inviato di Trump Zalmay Khalilzad, fino alla firma dell’accordo del 29 febbraio.

Siamo in sintonia, ha detto Trump, entrambi vogliamo il ritiro delle truppe e che la violenza finisca. Poche ore dopo gli aerei americani bombardavano un gruppo di Talebani nella provincia dell’Helmand. «Una operazione difensiva» a sostegno delle forze di sicurezza afghane, finite sotto il tiro dei Talebani, che il giorno prima avevano annunciato la fine della tregua, preliminare all’accordo con gli Usa.

Ora che le attività militari sono riprese, qualcuno – con eccessiva fretta – già sostiene che l’accordo è saltato. Altri, più pragmatici, lo esaminano con cura, enfatizzando l’ambiguità del testo, che non chiarisce il grado di violenza consentito o tollerato in questa fase che precede l’incontro tra Talebani e rappresentanti della Repubblica islamica, previsto per il 10 marzo. Ma c’è già chi scommette che sarà posticipato.