Nel giugno del 2013 Barack Obama invitò Xi Jinping in California, per un incontro informale. Poco prima che i due si incontrassero per camminare e discutere nella cornice bucolica della tenuta di Sunnylands, scoppiò il caso Datagate. Edward Snowden a Hong Kong rivelò i meccanismi di spionaggio degli Usa di Obama e della Nsa, proprio mentre il presidente americano sperava di inchiodare la controparte cinese proprio sul tema dei presunti attacchi hacker di Pechino contro Washington.

All’epoca si disse che l’incontro proposto da Obama aveva come scopo quello di una conoscenza più personale tra i due, in modo da poter ovviare con l’amicizia a incomprensioni diplomatiche evidenti. E ora pure Trump sembra provare la carta della cordialità e dell’invito «a casa». Ieri infatti è trapelato un invito rivolto dal neo presidente americano al presidente della Repubblica popolare cinese Xi Jinping, da tenersi il prossimo 6 o 7 aprile nella residenza di Mar-a-Lago in Florida, il luogo nel quale Trump passa, solitamente, i suoi week end.

Secondo i primi rumors, però, non sarebbe previsto alcun momento informale (come ad esempio qualche buca a golf), bensì un serrato confronto di lavoro. Del resto gli argomenti sono tanti e alcuni di non facile soluzione. Sabato 18 marzo a Pechino arriverà Rex Tillerson, il segretario di Stato. In Cina proverà a concordare con la controparte un’agenda possibile, con gli argomenti sui quali dovranno discutere i due presidenti. Quello di Tillerson sarà un viaggio asiatico non proprio semplice, perché oltre a Pechino sarà in visita anche a Tokyo e Seul.

Per gli Usa si tratta di mettere mano a uno scacchiere profondamente in tensione: tra le contese territoriali, le minacce di Pyongyang, la crisi politica in Corea, gli scontri in Myanmar e l’imprevedibilità di Duterte nelle Filippine, l’area sembra sottoposta a uno stress all’interno del quale la Cina ha buon gioco a proporsi come «forza responsabile». L’affossamento del Tpp – infatti – ha portato molti paesi della regione a rivolgersi alla Cina, nonostante ritrosie storiche o basate su contenziosi più attuali. Il comportamento di Trump con Pechino, con le telefonate alla leader taiwanese e i tweet su potenziali dazi alle merci cinesi, avevano irrigidito Pechino.

Poi il lancio di quattro missili da parte di Pyongyang ha riportato, almeno apparentemente, tutto nell’ordine conosciuto: Washington ha provveduto a cominciare il dispiegamento del sistema di difesa anti missili con Seul, un provvedimento fortemente criticato da Pechino.

E ieri, un altro scossone: il presidente filippino Rodrigo Duterte dapprima ha autorizzato la sorveglianza da parte cinese nell’area della Benham Rise, riconosciuta dalle Nazioni unite come filippina. Poi ha ordinato la costruzione di una «struttura» per ribadire la sovranità filippina su Benham rise.