‎«Sidone, Sidone, Tiro, Tiro‎». Samir Abu Kias, 28 anni, si guadagna da vivere ‎esortando a gran voce i viaggiatori a salire a bordo dei minibus diretti alle due città ‎meridionali libanesi. Gli autisti ripagano il suo impegno con qualche migliaio di lire ‎libanesi. Lui arrotonda preparando caffè per i passeggeri in attesa della partenza. ‎Tutto il giorno Samir, profugo palestinese, lo passa in quell’inferno di gas di scarico ‎di auto e bus e di clacson incessanti che è lo svincolo di Cola, a sud di ‎Beirut. ‎«Quando va bene riesco a portare a casa 20mila lire (circa 13 dollari). Non ‎sono molti ma almeno riusciamo a mangiare» ci spiega. Poco ma già è qualcosa in ‎Libano, paese che non permette ai palestinesi di svolgere gran parte delle attività ‎lavorative. Cola è vicino al campo di Shatila e fino a qualche anno fa era un mercato ‎delle braccia a basso costo solo per i palestinesi. ‎«Oggi ci sono anche i profughi ‎siriani e i palestinesi che prima erano in Siria, anche loro hanno bisogno di lavorare ‎e mangiare‎», spiega Samir. Shatila, poco più di un chilometro quadrato, che ha ‎accolto centinaia di famiglie giunte dalla Siria, è sul punto di esplodere. I servizi ‎sanitari e scolastici dell’Unrwa, l’agenzia dell’Unrwa che assiste i rifugiati ‎palestinesi, già insufficienti non bastano a rispondere ai bisogni di profughi vecchi e ‎nuovi.

I recenti tagli decisi dagli Stati uniti di oltre 300 milioni di dollari destinati ‎all’Unrwa, che assiste oltre cinque milioni di palestinesi nei Territori occupati, in ‎Libano, Siria e Giordania, si stanno rivelando catastrofici. Diversi paesi sono ‎intervenuti aumentando le donazioni ma il deficit dell’Unrwa resta ampio: 270 ‎milioni di dollari. L’agenzia dell’Onu peraltro garantisce molte migliaia di posti di ‎lavoro che ora rischiano di perdersi. I più esposti, perché i più poveri, sono i ‎profughi palestinesi a Gaza e in Libano. E ora Donald Trump, appoggiato da Israele, ‎punta alla chiusura dell’Unrwa in modo da imporre a Libano, Siria e Giordania di ‎assorbire milioni di profughi palestinesi e mettere fine al loro “diritto al ritorno” ‎nella terra d’origine sancito dalla risoluzione 194 dell’Onu.‎

‎ I nonni di Samir vivevano di agricoltura in un piccolo centro non lontano da ‎Tamra, in Galilea. Furono costretti a lasciarlo come molte migliaia di palestinesi di ‎quella zona sotto l’urto degli attacchi delle forze militari ebraiche prima e durante le ‎fasi che portarono alla nascita di Israele nel 1948. ‎«Delle volte provo ad ‎immaginare com’è la mia terra, la Palestina, e me la vedo bellissima davanti agli ‎occhi. Un giorno riuscirò a tornarci», dice Samir ribadendo quello che dicono un ‎po’ tutti i rifugiati palestinesi, incuranti delle decisioni di Trump e decisi a resistere ‎malgrado i colpi inferti dagli Usa all’Unrwa. Per Trump e il premier israeliano ‎Netanyahu, che come tutti i suoi predecessori nega categoricamente il diritto al ‎ritorno ai palestinesi, è proprio l’Unrwa la “responsabile”, perché con la sua ‎esistenza e il suo lavoro non farebbe altro che ‎«perpetuare il conflitto» israelo-‎palestinese. ‎«Trump punta molto più alto della distruzione dell’Unrwa, punta a ‎liquidare la stessa questione palestinese» diceva ieri al manifesto Sari Hanafi, ‎docente del Dipartimento di sociologia e antropologia dell’Università americana di ‎Beirut ed egli stesso un profugo cresciuto nel campo di Yarmouk (Damasco) prima ‎della formazione universitaria in Francia, ‎«ma è destinato a fallire perché con la sua ‎politica ha suscitato la reazione contraria di paesi occidentali e arabi che ora si ‎dicono disposti a coprire in buona parte il deficit dell’Unrwa». «L’aggressività di ‎Trump contro i palestinesi – aggiunge – è riuscita a scuotere persino l’Autorità ‎Nazionale di Abu Mazen spingendola ad adottare posizioni e un linguaggio che di ‎solito non usa». E comunque, conclude Hanafi, «palestinesi e arabi non ‎accetteranno imposizioni che vanno oltre la politica e creano problemi sociali ed ‎economici di eccezionale importanza». ‎

‎ Il ministro degli esteri libanese Jebran Bassil qualche giorno fa ha respinto con ‎forza il disegno di Stati Uniti e Israele per insediare i profughi palestinesi negli Stati ‎dove ora sono ospitati. ‎«Anche se il mondo intero accettasse l’insediamento dei ‎profughi palestinesi (nei paesi arabi) noi lo rifiuteremmo.‎‎ Il diritto al ritorno è ‎sacrosanto», ha detto Bassil trovando pieno appoggio nel presidente Michel Aoun‏.‏‎ Il ‎Libano ospita circa 500mila profughi palestinesi ed è nota l’avversione di una fetta ‎consistente della popolazione nei confronti della loro presenza (e da qualche anno ‎anche di quella dei profughi siriani). Avversione non poche volte sfociata in ostilità ‎aperta e persino in attacchi armati che hanno provocato massacri, come quello del ‎‎1982 a Sabra e Shatila compiuto da falangisti libanesi sostenuti da Israele, di cui ‎proprio in questi giorni si commemora l’anniversario. E la Giordania, pur non ‎avendo le posizioni dure del Libano, comunque ha messo in chiaro che non ‎assorbirà i profughi.‎

‎ Netanyahu e Trump vanno avanti, senza tenere conto dell’impraticabilità dei ‎loro disegni. Sostengono che assieme all’abolizione dell’Unrwa i palestinesi ‎dovranno essere affidati all’Unhcr, l’agenzia generale per i profughi, che adotta ‎criteri diversi per la definizione dello status di rifugiato. L’Unhcr, spiegano, non ‎estende automaticamente, come fa l’Unrwa, questo status ai discendenti dei profughi ‎e, sottolineano, guarda al loro inserimento negli Stati ospitanti e tiene conto ‎dell’ottenimento da parte dei rifugiati della cittadinanza in altri paesi. Così sulla ‎base di conteggi improbabili, americani e israeliani affermano che i profughi ‎‎«effettivi» passerebbero un solo colpo da cinque milioni a 500-600mila. ‎«Trump e ‎i suoi collaboratori possono fare tutti i calcoli che desiderano» avverte Sari ‎Hanafi ‎«ma sono destinati a fallire, non riusciranno a cancellare con un colpo di ‎spugna il diritto al ritorno e a liquidare la questione palestinese». ‎