Il segretario alla Difesa Usa, James Mattis, si è ritirato dal suo incarico subito dopo l’annuncio a sorpresa di Trump di ritiro delle forze statunitensi dalla Siria. L’ha fatto con una lettera di dimissioni dove, punto per punto, ha contestato i principi chiave della visione del mondo di Trump, incluso il suo approccio alla diplomazia «America First».

Mattis ha tenuto anche a mettere nero su bianco che, se gli Stati uniti devono rispetto agli alleati, dovrebbero anche smettere di essere «ambigui» nel trattare con Cina e Russia e che il presidente farebbe bene ad avere un capo della difesa che condivida le sue opinioni.

Considerando la profonda avversione che il generale reduce di tre guerre (Golfo, Afghanistan e Iraq) ha sempre nutrito nei riguardi di Mosca, non ci si poteva aspettare niente di diverso. L’uscita inattesa di Mattis ha gettato Washington nello sconforto: il generale, conosciuto con il soprannome di «cane pazzo», era considerato l’elemento più sensato di questa amministrazione ed era il più rispettato, sia all’interno che fuori.

Alla Difesa sembrava un esempio di moderazione, dotato di inaspettate capacità diplomatiche. Di fatto è un militare, un pragmatico a cui non piace perdere, contrario alle torture e al waterboarding non perché inumani, ma perché inefficaci, la cui carriera è costellata di aneddoti pittoreschi ma poco edificanti. Come quando, accogliendo dei leader iracheni all’inizio del conflitto, aveva detto loro: «Vi supplico di non fregarmi, altrimenti con le lacrime agli occhi vi ammazzo tutti».

Inizialmente il neo presidente Trump era intimidito da questo generale dei marines molto amato da Kissinger. Se era stato proprio Mattis a definire la risposta Usa ai presunti attacchi chimici del presidente siriano Assad, poi le differenze di visione aveva allontanato Trump: anche se non osava licenziarlo, l’aveva estromesso dalla gestione delle crisi con l’Iran e la Corea del Nord.

La goccia fatale per Mattis è stata prevedibilmente quella del ritiro dalla Siria che non avrebbe mai approvato. La decisione è stata presa singolarmente da Trump, forse già al vertice bilaterale con il leader turco Recep Tayyip Erdogan, durante il G20 di Buenos Aires.

L’uscita di Mattis segna la dissoluzione del cosiddetto «governo dei generali» di cui facevano parte anche il segretario di Stato Rex Tillerson e il capo dello staff della Casa bianca John Kelly, che garantivano una linea di continuità per la politica estera, rassicurando gli alleati sulla prevedibilità degli interventi e le risposte Usa.

Il dissolvimento del nucleo di cui Mattis era il perno ha sconfortato in patria in modo bipartisan: il senatore democratico Mark Warner ha definito la presenza di Mattis «un’isola di stabilità» nella squadra di Trump e il senatore repubblicano del Nebraska, Ben Sasse ha spiegato che «Mattis stava dando consigli che il presidente ha bisogno di sentire».

Era stato Mattis a rallentare una serie di proposte di Trump, come il divieto per i transgender di servire nell’esercito, l’avvio di un’inutile Space Force o l’istituzione di costose parate militari. E l’aveva fatto passando attraverso le mozioni della Casa bianca, per poi seppellire questi piani nella burocrazia del Dipartimento della Difesa.

Ma Mattis non è il solo problema della giornata: Trump ha detto ieri che lo shutdown del governo «è molto probabile». E sarà lungo, ha aggiunto, perché non accetta di cedere ai democratici e a un bilancio federale che non contiene i 5,7 miliardi di dollari per l’agognato muro con il Messico. La Camera ha detto sì, ma il Senato potrebbe dire no (il voto era previsto nella serata di ieri): in questo caso i dipartimenti di Stato, Giustizia, Trasporti, Agricoltura e Sicurezza nazionale chiuderanno.