La firma del trattato di pace tra Usa e Talebani e l’annuncio del risultato delle presidenziali del 28 settembre si avvicinano. Almeno così lasciano intendere i protagonisti dei due processi. Ieri Zamir Kabulov, inviato della Russia per l’Afghanistan ed esperto conoscitore delle faccende afghane, ha fatto sapere che la Russia è pronta a fare da garante internazionale, insieme ai rappresentanti di Cina, Iran e Pakistan tra gli altri, alla firma di uno storico accordo tra i Talebani e l’inviato del presidente Usa Donald Trump, Zalmay Khalilzad.

PER QUASI UN ANNO Khalilzad ha negoziato a Doha, in Qatar, con una delegazione talebana, arrivando a concordare un testo in 4 punti vicino alla firma quando il 7 settembre Trump ha fatto saltare l’intesa. Ci ha però ripensato, e il 28 novembre è arrivato a sorpresa nella base militare di Bagram, a nord di Kabul, per dare il contrordine. Così ai primi di dicembre Khalilzad è volato di nuovo a Doha, tornando a sedersi di fronte ai rappresentanti dei Talebani. I negoziati, così dicono i protagonisti, procedono bene, a dispetto dell’attentato clamoroso condotto dai Talebani proprio contro la base di Bagram. Tanto bene che la firma potrebbe avvenire entro la fine dell’anno, forse già a Natale.

Andrebbe letta dentro questa cornice anche la notizia – data dalla rete statunitense Nbc – secondo cui l’amministrazione Trump potrebbe presto annunciare il ritiro di circa 4000 soldati, riducendoli così a 8.600. Il ritiro potrebbe essere la condizione posta dai Talebani per accettare quella riduzione della violenza richiesta dal governo di Kabul e ora anche da Washington, come garanzia delle buone intenzioni dei Talebani e della loro reale intenzione di negoziare anche con gli esponenti del governo locale, una volta chiuso l’accordo con gli Usa. Kabul in realtà chiede un vero cessate il fuoco, ma potrebbe accontentarsi di una significativa riduzione della violenza, come inizio.

SE I TALEBANI DECIDESSERO di negoziare anche con Kabul, si troverebbero però a parlare con un fronte sfilacciato, privo di unità. Lo dimostra il caos successivo alle elezioni presidenziali del 28 settembre, che hanno provocato una grave crisi istituzionale, frutto dello scontro – come nel 2014 – tra i due candidati favoriti, l’attuale primo ministro Abdullah Abdullah e il presidente in carica Ashraf Ghani. Entrambi convinti che l’avversario sia disposto a tutto pur di portare a casa la vittoria. Ad alzare la voce è stato in particolare Abdullah, i cui sostenitori per un mese hanno impedito ai funzionari della Commissione elettorale di procedere con il riconteggio dei voti in 7 delle 34 province, nei bacini elettorali di Abdullah. Il quale dopo alcune manifestazioni e appelli ed estenuanti riunioni con i funzionari della Commissione finite inevitabilmente in bagarre, il 13 dicembre ha deciso di dare il via libera al riconteggio dei voti. Pur continuando a sostenere che non accetterà alcun risultato “fraudolento”. Abdullah e altri candidati minori sostengono che il conteggio sarebbe dovuto avvenire soltanto dopo aver escluso 300.000 voti che considerano irregolari dal totale, circa 1 milione e ottocentomila. Abdullah ha tenuto a lungo il punto, ma ora dice di aver voluto dimostrare la propria “buona volontà” alla Commissione elettorale. In cambio di cosa, non è chiaro.

E A DIMOSTRAZIONE di quanto i problemi del Paese non si esauriscano nel conflitto con i Talebani, basta volgere lo sguardo a Mazar-e-Sharif, capoluogo della provincia settentrionale di Balkh. Una città centrale nell’economia nazionale, il cui centro è stato paralizzato per 24 ore dagli scontri tra le forze governative e gli uomini di Nizamuddin Qaisari, a capo di una corposa milizia irregolare. La sua casa è stata accerchiata e bombardata, molti suoi uomini sono rimasti uccisi. Ma ha evitato l’arresto e si è rifugiato nella provincia di Jawzjan, feudo di un altro celebre warlord, il generale Abdul Rashid Dostum. Che scalpita nervoso. Il 2 dicembre ha ricevuto la visita – di rassicurazioni – del generale Usa Miller, a capo delle truppe Usa e Nato in Afghanistan. Ma è tra coloro che potrebbero uscire malamente sconfitti dalla riconferma del presidente Ghani.