Bandy Lee è una psichiatra dell’Università di Yale. Ha pubblicato otto mesi fa, insieme a molti altri psichiatri statunitensi, un libro diventato rapidamente best seller: «Il pericoloso caso di Donald Trump». Una settimana fa in un articolo pubblicato sul Guardian, ha sostenuto, con tutta la prudenza dovuta al fatto che non ha potuto visitarlo personalmente, ma in modo chiaro e inequivocabile, che il presidente degli Stati Uniti è psichicamente insano.

Negli stessi giorni usciva i libro di Michael Wolf «Fuoco e Furia», in cui si sostiene che lo staff di Casa Bianca consideri Trump «idiota».

Che il presidente degli Stati Uniti non abbia tutte le rotelle a posto, non è necessario che lo certifichi uno psichiatra. A dire il vero egli non fa molto per nasconderlo: una certa disinibizione psichica glielo impedisce. È peraltro il suo modo di curarsi.

Non sembrano persone equilibrate neppure il ministro degli Esteri britannico, che vorrebbe un francobollo commemorativo per la Brexit, né il premier ceco secondo cui la dissoluzione tra la Spagna e la Catalogna sarebbe un modello da seguire.

Più in generale una serie di caratteristiche considerate poco edificanti e dannose sul piano della vivibilità delle relazioni umane, come l’eccesso di autoreferenzialità o l’interpretazione variamente paranoica della realtà, non solo fanno parte del bagaglio di molti politici, ma costituiscono spesso la chiave del loro successo.

Nondimeno con le diagnosi psichiatriche degli uomini politici bisogna essere cauti.

Non tanto perché non siano valide da un punto di vista descrittivo, spesso lo sono, quanto perché inducono una certa confusione con i pazienti che affollano le strutture private e pubbliche di cura psichica. Questi ultimi non aspirano a occupare posti di potere e, sorprendentemente per i più, non sono privi di senso di responsabilità nei confronti dell’interesse comune (se non lo intendiamo come forma “ordinata” di esistenza).

Chi della propria sofferenza non diventa complice, anche quando non riesce a trasformarla in una domanda consapevole di cura, resta una persona viva, sana a suo modo perfino quando il dolore lo destruttura.

È, invece, una mina vagante per le istituzioni civili e politiche della città, chi sulla propria sofferenza, tenacemente negata, lucra. Questa condizione non fa parte della clinica psichiatrica (con tutte le sue presunzioni), è una perversione della vita.

La perversione (da non confondere con le pratiche eccitanti e le forme “bizzarre” della sessualità alle quali può appoggiarsi) trasforma il gusto del vivere (la capacità di assaporare la profondità di ogni esperienza) in una forma di esistenza fondata sul calcolo che riduce ogni oggetto desiderabile in cosa da manipolare e strumentalizzare.

La condizione diTrump, è, nei fatti, necrofila: egli toglie la vita da ogni cosa che tocca.

La diagnosi che più gli si addice è, in effetti, l’“idiozia”. Non è precisa sul piano medico, né implica un Q.I basso. Coglie, nondimeno, l’essenziale: una profonda incapacità di una lettura adeguata della realtà, un’ottusità di pensiero spaventosa che sa misurare convenienze immediate e quantità, ma distrugge con perseveranza suicida tutte le forme di qualità dell’esistenza.

Trump e i tanti altri eccellenti «idioti» dei nostri giorni non sono, tuttavia, il vero problema.

Il pericolo non è mai nel sintomo, che ci apre gli occhi, ma nella malattia.

Cos’altro è l’elezione di Trump se non l’autoaffermazione, che ha fatto di lui la sua protesi, di una «idiozia» collettiva? Da questa condizione si deve e si può riprendere, basterebbe riconoscerla, non scambiare la causa con l’effetto.