Sarà anche vero, come segnala la stampa d’oltreoceano all’indomani della sua vittoria nelle primarie dello stato dell’Indiana, che una parte della base repubblicana più moderata è pronta a disertare le urne nella prospettiva, sempre più probabile, che Trump sia il candidato del Grand Old Party nella corsa alla Casa bianca. Ma ciò non toglie che per quanto eccentrico e fuori dagli schemi anche per gli ambienti ultraconservatori, il miliardario newyorkese incarna perfettamente la deriva che da molto tempo attraversa le fila della destra americana.

Deriva che si è fatta ancor più netta e violenta nell’ultimo decennio, quello della presidenza Obama e della grande crisi economica, e che ha finito per mettere più volte in discussione la stessa leadership del partito che fu, come viene ricordato ora in opposizione a Trump, di Lincoln e Roosevelt, ma anche, più di recente, di Nixon, Reagan e George W. Bush, non certo campioni di moderatismo. Per sfidare il primo presidente afroamericano, nel 2008 i repubblicani schierarono l’ex eroe, e prigioniero, di guerra in Vietnam, il senatore dell’Arizona John McCain che aveva fama di moderato e pragmatico. Una scelta invisa ai settori più oltranzisti del partito che consideravano McCain un «Rino», vale a dire un «repubblicano solo di nome». Per correre ai ripari, nel ticket presidenziale entrò l’ex governatrice dell’Alaska Sarah Palin, antiabortista, vicina agli evangelici e amica della lobby delle armi; oggi con Trump.

Quattro anni più tardi, toccò a Mitt Romney, e come vice a Paul Ryan, posizionati su una linea centrista. Ma mentre anche tra i repubblicani, tradizionali detentori dell’elettorato bianco specie nel sud e nel Midwest, emergeva la consapevolezza di dover intercettare in prospettiva anche il voto ispanico – molti speravano nel senatore della Florida Marco Rubio, di origine cubana -, aveva già fatto irruzione sulla scena il Tea Party.

Nato sui blog, il movimento che si è ispirato alla rivolta scoppiata nel 1773 contro gli inglesi, ha preso forma come base di massa della dura opposizione parlamentare dei repubblicani alla riforma sanitaria voluta da Obama, descritta come un primo passo «verso il socialismo».

Intorno a quella prima mobilitazione si è poi sviluppata una vera e propria new wave di destra, coccolata dai media conservatori come Fox News, che ha finito per raccogliere tutte le voci che si opponevano all’amministrazione democratica: dagli adepti di ogni sorta di visione complottista sull’elezione di Obama, agli strenui difensori dell’egemonia Wasp, al sempreverde movimento anti-tasse, fino ai nuovi nativisti contrari all’immigrazione che hanno avuto a lungo come proprio idolo la governatrice repubblicana dell’Arizona, Jan Brewer.

In questo clima, il Partito repubblicano ha finito per fare la fine dell’apprendista stregone, sottomesso dalla propria creatura. Al punto che il giornalista Max Blumenthal, autore di un viaggio all’interno del Gop intitolato Republican Gomorrah, ne ha tracciato questo sinistro identikit: «quasi esclusivamente bianco, smaccatamente evangelico, fissato con l’aborto, l’omosessualità e l’educazione all’astinenza sessuale, risentito e arrabbiato e, soprattutto, incapace di comprendere come abbia fatto a diventare così».
Dopo aver evocato, nel corso degli ultimi dieci anni, la rabbia, la frustrazione e il malessere dei piccoli bianchi, conclude Blumenthal, i repubblicani moderati, gli eredi dei Rockfeller e degli Eisenhower, non esistono più.

Del resto, il fatto che l’unico che è sembrato a lungo in grado di sfidare Trump sia stato il senatore ultraconservatore del Texas Ted Cruz la dice lunga sul reale profilo di gran parte della base del Gop. Xenofobo, sessista, guerrafondaio, il tycoon di New York è riuscito a far fuori dalla corsa nomi di primo piano dell’élite repubblicana proponendo ad un elettorato arrabbiato e spaventato una sorta di variazione sul tema di quanto si è andato sedimentando a destra di recente.

Ci è riuscito incarnando uno dei temi evocati negli ultimi anni dalle piazze di destra, mediatiche o reali, degli Usa contro Obama: la sfiducia totale nei confronti dell’establishment. Solo che per i suoi sostenitori anche i vertici del Partito repubblicano ne fanno parte.