L’attentato anti-islamico di Quebec City, dove un attentatore d’estrema destra – ammiratore, nell’ordine, del neopresidente Usa, di Le Pen e delle forze di sicurezza israeliane – ha aperto il fuoco contro fedeli in preghiera nella locale moschea, è un american psycho: la suggestiva messa in pratica del modello Donald Trump e dei suoi provvedimenti contro l’ingresso di cittadini di sette stati arabi. Un atto terroristico «bianco» che oltre a colpire le aperture del premier Trudeau sui migranti siriani, tira le estreme conseguenze del bando razzista della Casa bianca: se l’islam è uguale al terrorismo, facciamoli fuori.

Non è retorico affermare che la «cultura» di Trump – brutale, rapida e ignorante – rischia di armare la mano dei tanti, troppi suprematisti bianchi.

Il bando d’ingresso negli Stati uniti a cittadini di Iran, Iraq, Siria, Libia, Sudan, Yemen e Somalia è probabilmente l’editto più razzista che un governo occidentale – e che governo occidentale! – abbia mai emanato dalla Seconda guerra mondiale. Non estraneo certo alla storia americana, ma in contrapposizione aperta con la «natura migrante» degli Usa. Una proscrizione, amministrativa e temporanea, che richiama però le famigerate leggi fasciste su razza e religione.

Trump è «razionale» e menzognero, come ogni populismo razzista di governo che si rispetti, ma non è «solo»: fa quello che aveva promesso ai suoi elettori e caccia la ministra della giustizia ancora in carica contraria all’editto razzista. E nell’impeto giustizialista esclude però dal provvedimentol’alleata Arabia saudita, patria del wahabismo sunnita che ha alimentato il terrorismo di matrice islamista nella spirale delle guerre volute sia dall’Occidente che dalle petromonarchie del Golfo.

Eppure l’iniziativa di Trump deve intanto rispondere ad una protesta di massa che si diffonde in tutti gli Stati uniti, a partire dai terminal degli aeroporti dove i manifestanti – sembra il remake collettivo di The Terminal, il film di Spielberg con Tom Hanks – aiutano i nuovi «banditi» ad entrare nel paese; ma anche da parte dei governi di 15 Stati americani e da tante multinazionali contrarie al bando.
Una protesta che trova subito come interlocutore Barack Obama.

C’è poi una zona di buio internazionale pericolosa. L’iniziativa provocatoria di Trump fa esplodere nuove contraddizioni in Medio Oriente, da quelle frontali dell’Iran che teme la cancellazione dell’accordo sul nucleare, alla mano libera con i palestinesi concessa a Netanyahu, all’Iraq dove è il parlamento a reagire con il divieto all’ingresso degli americani, ma il governo insediato dagli Usa tace.

Quel che davvero non fa paura alla nuova Casa bianca è la sorprendente reazione di basso profilo dell’Unione europea. Del resto, poteva essere altrimenti? Trump dice che non vuole il caos europeo. E l’Ue risponde che no: i suoi respingimenti non sono sulla base della nazionalità, della religione e della razza. L’Europa respinge e basta. Mostrando di avere poche carte in regola, la condanna di Trump è fatta di parole. In concreto l’Ue lavora per esternalizzare i profughi in «posti sicuri» che si chiamano Turchia e Niger; la «diversa» Italia di Alfano-Minniti rilancia i lager che chiamiamo Cie; i nuovi Muri contro i migranti svettano da Calais-Dover a Ceuta-Melilla, non solo a Est e nell’autoritaria Ungheria che subito plaude all’iniziativa di Trump.

E chi, se non la stessa Commissione europea che non può rispondere alla Casa bianca, vuole ora erigere un «muro a mare», un blocco navale contro i migranti di nefasta memoria, sulle acque internazionali davanti alla Libia delegandone l’operatività a un paese in guerra civile, con tre governi e cinque fazioni contrapposte?

Questa è l’Unione europea che rischia di scoprirsi specchio fedele di Donald Trump.