Quest’ultimo, ennesimo supermartedì verrà probabilmente ricordato come quello che ha sancito l’inevitabilità di Trump. Le straripanti vittorie in Pennsylvania, Rhode Island Connecticut, Maryland e Delaware  – gli stati “suburbani” dell’Est metropolitano – hanno aperto al trionfante milionario l’anticamera della nomination.

Fra i democratici la gara è finita 4-1 per Hillary Clinton su Bernie Sanders, che si è aggiudicato il solo Rhode Island. Un risultato che anche qui chiude praticamente la partita e spiana la strada verso un possibile – ormai probabile – confronto finale Hillary-Trump, che i network hanno immediatamente preso a pronosticare e preventivamente analizzare.

A sei settimane dall’ultimo voto delle primarie, in California a giugno, Trump ha inanellato le ultime vittorie con margini imponenti, spesso il doppio dei voti dei due avversari messi assieme.

Il patto di non belligeranza anti-Trump fra Cruz e Kasich (pur in verità mirato a successivi stati del West) non ha inciso minimamente sul plebiscito.

Cruz ha accusato i media di voler prematuramente incoronare un candidato ma la verità è che in questo 26 aprile Trump, l’outsider, l’impresentabile, escandescente antipolitico, ha intravisto per la prima volta a portata di mano il traguardo dei 1.237 delegati che gli darebbero la nomination di un partito che ancora stenta a farsene una ragione.

Prosegue quindi lo spettacolo di un partito eviscerato da un movimento incontrollabile di insofferenza contro il sistema politico costituito. Ma diventa improvvisamente plausibile una vittoria “diretta”, senza bisogno di una battaglia nella convention.

“Mi ritengo il candidato in pectore” ha detto Trump alla folla che lo ha acclamato alla Trump tower di Manhattan dopo il trionfo, ed è sembrato di sentire migliaia di repubblicani deglutire un monumentale rospo.

Si perché per i dirigenti del Gop e per gli schieramenti tradizionali del partito conservatore – crociati ideologici e capitalisti – si profila ora l’impensabile: la consacrazione di una celebrità di reality TV che li deride apertamente ogni giorno come sbeffeggia l’intera classe politica. Per la corrente del “never Trump” che puntava a deragliare la sua corsa prima del traguardo, sta infatti per scadere il tempo utile e rischia ora di assomigliare, come ha scritto su The Nation John Nichols, allo schieramento che nel 1964 cercò di sbarrare la strada a Barry Goldwater, il candidato di estrema destra che vinse comunque la nomination.

Se la storia si dovesse ripetere, i repubblicani “storici” si troverebbero di fronte a un dilemma impossibile: serrare i ranghi dietro a Trump e tentare di vincere comunque le elezioni a costo di consegnare il partito a un imprevedibile antipolitico. Oppure, come sostengono alcuni irriducibili, astenersi e concentrarsi sulle elezioni parlamentari per contrastare una presidenza Clinton.

Solo l’altroieri Charles Koch, uno dei famigerati fratelli patroni degli ultraconservatori, ha praticamente dichiarato preferibile Hillary a Trump.

Ma nulla in realtà è scontato, salvo che la campagna presidenziale fra i due attuali quasi-nominati sarebbe un confronto inedito quanto affascinante.

Trump a livello nazionale deve fare i conti con un tasso di non-gradimento del 65% e in teoria dovrebbe avere nell’elettorato femminile e quello  “etnico” (che insulta senza sosta) ostacoli quasi insormontabili alla vittoria. Potrebbe insomma fare la fine di Goldwater che nelle presidenziali del 64 finì poi per perdere rovinosamente contro Johnson.

Ma il confronto sarebbe del tutto asimmetrico, fra un iconoclasta gutturale e una politica di lungo corso – nel momento dell’apoteosi antipolitica.

In alcune istanze Trump potrebbe perfino collocarsi populisticamente a “sinistra” dell’avversaria, sugli accordi commerciali ad esempio, la cui critica gli vale enormi consensi nel proletariato (anche democratico) della rust belt.

Il jolly (in inglese per casualità si dice “Trump Card”) è insomma  il virulento impetuoso sentimento anti sistema che in queste primarie sta spazzando il paese come un incendio. E che ha capovolto i teoremi tradizionali, trasformando ignoranza, e  anti dialettica in doti positive.

Sarà in definitiva un test per tutti i populismi  (non è stata casuale la recente visita di Salvini alla corte di Trump a Filadelfia).

Potrebbe non essere scontata quindi una vittoria di Hillary, e molto dipenderà da come riuscirà a riconciliarsi con il “partito” progressista costituito in questi mesi da Bernie Sanders in una vera forza politica.