Se si votasse domani, per le presidenziali e per il rinnovo del Congresso, il repubblicano Mitch McConnell non riprenderebbe il suo attuale ruolo di majority leader del senato degli Stati Uniti. E a presiedere il senato non ci sarebbe più un repubblicano, Mike Pence, perché il vicepresidente degli Stati Uniti, che svolge appunto quella funzione, non sarebbe più lui, ma un democratico.

Già perché il nuovo presidente sarebbe un democratico. Joe Biden? Elizabeth Warren? Bernie Sanders? Non importa. E sì, gli ultimi sondaggi parlano di un esito catastrofico per Donald Trump in una sfida presidenziale con uno qualsiasi dei tre candidati democratici, ma quel che forse è ancora più preoccupante per i repubblicani, è la perdita della loro attuale maggioranza nella camera alta. Con un effetto domino sul voto per il rinnovo della camera, dove l’attuale maggioranza democratica uscirebbe rafforzata, e sulle elezioni per i governatori e per i parlamenti statali.

PECCATO, non si vota domani. Le elezioni sono tra un anno. E le primarie democratiche devono ancora cominciare. La prima tornata è prevista lunedì 3 febbraio, con i caucus in Iowa. Di qui ad allora sono previsti altri quattro dei dodici dibattiti tra gli aspiranti alla nomination democratica, il primo dei quali il 20 novembre a Washington. Una corsa ancora aperta e ruvida, sondaggi ballerini, con Biden dato per spacciato e ora di nuovo in testa, numeri che rendono imperscrutabile l’esito finale. Ovviamente sarebbe auspicabile, per le sorti dei democratici, disporre il prima possibile di un volto e di una piattaforma da contrapporre a Trump.

Accadrà inevitabilmente il contrario. Con il rischio di uno scontro tutto autoreferenziale, e il rischio complementare di uno spostamento, come già è evidente, del centro della scena politica nelle aule del Campidoglio, in qualche modo delegando ai parlamentari, con la procedura d’impeachment, il compito di mettere, loro, alle corde e poi fuori gioco Trump. Come escludere che l’«imputato» rovesci ancora una volta a suo favore una partita in cui è dato per perdente sicuro?

C’È UN PERICOLO ulteriore – un compattamento del Partito repubblicano – come peraltro è già accaduto alla camera dei rappresentanti nella votazione sull’impeachment. Non ci fosse stato l’obbligo evidente di schierarsi con Trump, alla luce di questi ultimi sondaggi, anche tenendo conto della loro volatilità, diversi parlamentari repubblicani in corsa per la rielezione volentieri avrebbero già preso da un po’ le distanze da un presidente che trascina i loro destini nel gorgo del suo destino.

Difficile peraltro che il complesso iter dell’impeachment si concluderà con l’esito auspicato da buona parte degli elettori democratici, vedere Trump arrestato e letteralmente trascinato via dagli agenti dallo studio ovale. Quando le carte passeranno dalla camera al senato, Trump si troverà di fronte una maggioranza molto più ben disposta nei suoi confronti. I repubblicani sono 53, i democratici 47. Considerando che per la rimozione del presidente occorre una maggioranza di due terzi, significa che una ventina di senatori repubblicani dovrebbe votare a favore. Inimmaginabile.

QUEST’INSIEME di considerazioni era ben presente nell’atteggiamento di Nancy Pelosi, riluttante ad accogliere la richiesta sempre più pressante che veniva dalla sinistra del partito a procedere contro Trump. Il voto compatto del grosso dei deputati dem – 231 su 234 – rivela uno scenario che è andato evolvendo rapidamente, portando la speaker a cambiare decisamente linea.

Pensava, Nancy Pelosi, che un buon numero di deputati eletti in collegi di Stati che nel 2016 avevano scelto Trump, potesse votare contro o disertare la votazione, temendo la vendetta degli elettori trumpisti nei loro confronti al momento della loro ricandidatura nel 2020.

Il loro cambiamento d’umore – rilevato da Pelosi – è un dato interessante. Le loro antenne hanno registrato i riverberi sull’elettorato del crescendo della vicenda ucraina, un groviglio da cui Trump non riesce a divincolarsi e che vede sempre più coinvolta la sua cerchia ristretta, in particolare il suo avvocato Rudy Giuliani.

LA VICENDA – finendo nelle aule parlamentari – sta quindi già rendendo evidente che la presidenza Trump non è solo lui, il personaggio larger than life che l’incarna e la rappresenta, ma anche la cricca d’imprensentabili che ha intorno. I rischi che emergano nuovi aspetti inquietanti nelle vicende legate a Mosca e a Kiev sono elevati, ed evidenti le possibili conseguenze, in primo luogo quella di spostare nuovi pezzi dell’opinione pubblica a favore dell’impeachment.

In termini di voti, potrebbe significare che altre porzioni rilevanti di elettorato un tempo sicuro per Trump potrebbero abbandonarlo, come, appunto, segnalano fin d’ora i sondaggi e le antenne dei parlamentari nei territori.