Domani, in Arabia Saudita, Donald Trump pronuncerà un discorso sull’Islam di fronte a cinquanta leader e alti dignitari di diversi paesi musulmani. Un intervento molto atteso. Per tante ragioni. La prima riguarda l’oratore stesso, il presidente che suggellò il suo ingresso alla Casa Bianca con la firma dell’Executive Order 13769. Il famigerato muslimban, il divieto d’ingresso negli Stati Uniti per i passeggeri provenienti da sette paesi islamici. E chi fu l’estensore di quell’ordine esecutivo? Stephen Miller, con la complicità di Steve Bannon. Quello stesso Miller, 31 anni, che scrive e ha scritto i più importanti discorsi di Trump.

Fu notato che nella lista delle provenienze messe al bando non figurava l’Arabia Saudita, il paese dei terroristi dell’11 settembre. Perché sorprendersi? Ma quella del muslimban può ormai sembrare perfino una storia d’altri tempi se non fosse che Miller è anche l’estensore del discorso sull’islam che il presidente pronuncerà domani. Un testo, si presume, dai toni e dall’intento ben diversi da quelli sprezzanti dei comizi e tweet elettorali e poi dagli interventi che hanno accompagnato il muslimban. Un’altra delle stravaganti giravolte di Trump? Sui capovolgimenti di linea suoi e, di conseguenza, dei suoi più diretti collaboratori, si è molto scritto e detto, anche sostenendo che essi sono dettati da un sano realismo.

Il realismo del governo di un grande paese che, a un certo punto, avrebbe contagiato anche l’irrequieto e imprevedibile presidente, in particolare sul terreno della politica internazionale. I missili contro la Siria e la superbomba in Afghanistan sono stati salutati come il segno della sua resipiscenza dallo stuolo di commentatori nostrani che non si davano pace di fronte a un presidente che si professava isolazionista e del tutto refrattario ai diritti umani e alla democrazia, tanto meno in versione export. Si è anche detto, più banalmente, che la politica estera può servire a distogliere l’attenzione dai guai «domestici» che lo stanno portando sull’orlo della messa in stato d’accusa da parte del Congresso.

Questi otto giorni lontano dalla Casa Bianca serviranno a capire se c’è una dottrina Trump e che cos’è, e se, in ogni caso, la politica internazionale può essere per lui un’utile arma di distrazione dai problemi a Washington.

Le attese intorno a questo viaggio, privo di un copione un minimo prevedibile, sono talmente basse che anche solo qualche colpo a effetto potrebbe servirgli sia a dare l’illusione di essere un commander in chief con un’autorevolezza all’estero che non ha a casa sia ad accreditare l’idea che abbia addirittura in testa un disegno coerente di politica internazionale. Naturalmente la missione potrebbe rivelarsi un fiasco su entrambi i fronti, e su questo scommettono i suoi avversari, ed è quel che temono apertamente repubblicani e commentatori di destra, data l’inclinazione irresistibile di Trump all’improvvisazione e a fare affidamento al suo intuito e alla sua vantata capacità di intessere relazioni personali. Avendo peraltro intorno a sé uno staff in piena crisi e dilaniato da lotte di fazione.

È chiaro che il pericolo di cadere dalla padella (di Washington) nella brace (del Medio Oriente e dell’Europa) sarà presente in ogni istante degli otto giorni in Arabia Saudita, Israele, Palestina, Bruxelles, Roma e Taormina. Basterà un tweet a combinare il disastro.

Quello che si può ragionevolmente prevedere, ma su un piano più prepolitico che politico, è che Trump potrebbe conseguire qualche punto in Medio Oriente, dove avrà a che fare con autocrati e governanti in fondo non molto diversi da lui, e che per questo l’ammirano, detestando del suo predecessore non tanto le scelte politiche quanto il rispetto che professava e praticava nei confronti dei loro popoli.

Gli sceicchi e i rais preferiscono il rude americano che sputa veleno sui musulmani all’Obama dal secondo nome Hussein, figlio di Barack Hussein. Idem Bibi, non importa se poi Trump lo prende in giro, facendogli credere che sposterà l’ambasciata americana a Gerusalemme e, forse, perfino con più forza di Obama lo ferma sugli insediamenti.

Più problematica la seconda parte del viaggio, in Europa, dove l’eco di un possibile Watergate indebolisce la figura del presidente americano. È quell’Europa che Trump ha strapazzato in campagna elettorale. Quegli alleati di una Nato obsoleta a cui dare più contributi in termini di soldi e di soldati.

Con i leader del G7, tra cui il canadese Justin Trudeau, anche lui maltrattato dal presidente immobiliarista, farà fatica a compensare le sue idiosincrasie politiche con la «chimica» della sua simpatia e delle pacche sulle spalle alla Berlusconi.

Paradossalmente proprio l’incontro con il papa, a meno che non finisca in una grande litigata, come pure è possibile, potrebbe invece rivelarsi l’opposto. Una sorpresa.