Che può succedere in un paese dove ci sono molte più pistole e fucili, anche da guerra, che abitanti? E nel quale, solo nell’ultimo anno, 40.000 persone sono morte per sparatorie? E dove dal 2012 (strage di Sandy Hook) a oggi 700.000 persone risultano uccise da armi da fuoco?

Che cosa può succedere in un paese così, se il presidente in carica accusa l’opposizione di tentare di liberarsi di lui con un colpo di stato? Lo scorso inizio d’ottobre, aveva fatto particolare scalpore un tweet di Trump, che pure ne aveva già prodotti undicimila, dall’Inauguration Day fino a quel giorno, 5.800 dei quali di polemica virulenta contro avversari e critici. Il tweet rilanciava come fosse proprio quello di un suo ardente sostenitore, Robert Jeffress, pastore battista di una megachurch di Dallas, il quale paventava lo scenario di una “frattura simile alla guerra civile” nel caso Trump fosse rimosso dall’incarico al termine di un procedimento d’impeachment. E il giorno dopo gli strateghi della campagna per la rielezione di Trump lanciavano un nuovo messaggio propagandistico che faceva eco al tweet del presidente: “Siamo al colpo di stato, e va fermato”.

Colpo di stato. Guerra civile. Metafore pericolose. Sempre più borderline. Sempre più ripetute, in comizi e in talk show. Sale alle stelle la tensione politica tra la Casa bianca e il Partito democratico, mentre si entra nel vivo delle presidenziali, una competizione nella quale già in tempi normali il confronto è molto duro e non si lesinano colpi bassi. In un clima così rovente, con il protagonista principale privo di scrupoli e di limiti, l’America sale su una montagna russa che durerà 46 settimane, di qui a martedì 3 novembre. Un 2020 che inquieta, non solo chi crede nella cabala. Inquietante per la densità e intensità di fatti, misfatti, vicende senza precedenti che sono previsti, senza contemplare tutti i prevedibili imprevisti.

In risposta alla decisione dei deputati democratici di trascinarlo a giudizio di fronte al senato in funzione di aula giudicante, la postura di Trump sarà quella dunque di chi va allo scontro finale, ponendosi come la vittima di un disegno golpista. Una vittima che va al contrattacco, e lo fa sollecitando e mobilitando dietro di sé gli elettori che costituirono la base principale del suo successo nel 2016 e che, da allora, l’hanno seguito nella campagna permanente che ha proseguito anche da presidente.

Trump ha un suo partito personale “di massa” nel Partito repubblicano. Che condivide e interiorizza, fin dalla sua apparizione sulla scena, il refrain del loro beniamino, di essere vittima di un piano degli avversari per farlo sloggiare dalla Casa bianca. I suoi elettori sono gli stessi che in questi giorni stanno reagendo agli sforzi del Partito democratico di regolamentare il possesso di armi da fuoco, con clamorose forme di disobbedienza. In Virginia, dove il movimento per il controllo delle armi ha contribuito alla vittoria del governatore democratico Ralph Northam, il 90 per cento delle contee e diversi municipi si sono dichiarati “santuari” per i possessori di armi da fuoco. Un far west che dice fino a che punto è arrivato lo scontro tra le due Americhe e quanto oltre può andare.

Incasellare quanto sta avvenendo a Washington dentro la cornice di uno scontro politico nel quale, alla fine, a uscirne vincente sarà il presidente in carica e dal quale il Partito democratico avrà tutto da perdere, è giusto, eppure riduttivo. Ed è perfino riduttivo rappresentare lo scontro come una grave insidia, che pure evidentemente c’è, alle istituzioni americane e al delicato bilanciamento tra poteri su cui si basa la democrazia di quel paese. In gioco è la stabilità stessa del paese, se non interverrà un fattore politico di peso che in qualche modo fermi la deriva in atto verso forme incontrollate di guerra civile, non più solo metaforiche.

I democratici, in tutto questo, sono in una posizione bizzarra. Da un lato sono impegnati sul fronte dell’impeachment, che tra l’altro richiederà a tutti i senatori, compresi i candidati alla nomination, una presenza costante nelle udienze, tutti i giorni della settimana; dall’altro lato, proseguono lungo il tragitto delle primarie, secondo le tappe prestabilite. Ieri sera il sesto e ultimo dei dibattiti di quest’anno, con i sette candidati rimasti in corsa, in un confronto destinato a salire di tono e tensione rispetto ai precedenti, mentre s’avvicina l’inizio delle primarie in Iowa ai primi di febbraio. Una partita tutt’interna, per molti versi autoreferenziale, mentre fuori succede il finimondo.

Per paradosso, l’inciampo per Trump lungo il percorso di un’escalation incontrollata del conflitto potrebbe venirgli proprio dal Partito repubblicano. Non certo dalla sua maggioranza, schiacciata su Trump, ma dalla sparuta però non irrilevante pattuglia di senatori moderati, o in scadenza di mandato o a rischio di rielezione in stati in bilico. Sono quel che resta del centrismo repubblicano, una specie politica in estinzione, forse sopravvalutata nelle ere politiche in cui a dominare erano loro, ma che oggi Trump farebbe bene a non sottovalutare pensando di trascinarli in uno scontro senza quartiere.