Il Nobel per la Pace a Donald Trump? Lui ci crede. Ancor di più le folle di sostenitori che nei comizi lusingano il “loro” presidente al canto di «Nobel, Nobel». Trump si schermisce e, come assaporando il momento della consegna del premio, ostenta la modestia dello statista interessato non alla sua fama ma alla pace nel mondo.

Io e Kim «cercheremo entrambi di fare [del nostro incontro] un momento molto speciale per la pace mondiale», cinguetta il presidente statunitense, dopo aver accolto tre prigionieri americani rilasciati dalla Corea del nord e caricando di grandi aspettative il prossimo incontro con il leader nordocoreano.

IL 12 GIUGNO, DUNQUE. A Singapore. La scena di due bulli scriteriati che s’incontrano e si stringono la mano pronti a esibire il loro sperimentato repertorio di teatranti, con le loro maschere cult che tanto fanno sorridere tragicamente i loro avversari quanto ammaliano i loro fan. Roba da cancellare mediaticamente ogni altro vertice precedente – a riprova della bizzarria del ciclo storico che viviamo – già nella stessa attesa che il vertice si svolga, un’attesa gravata dalle tante incognite che i due cavalli pazzi possono riservare al pubblico mondiale, compresa quella di un incontro che si risolva in una bolla di sapone, come avverte lo stesso Trump. Che anche così tenta di placare le ansie dei falchi, i quali temono un cedimento da parte del neofita della politica internazionale di fronte a impegni che Kim non potrà o non vorrà mantenere.

Preoccupazioni che non impensieriscono Trump. Contano molto meno del plauso della stragrande maggioranza degli elettori repubblicani che approvano con convinzione la trattativa avviata con quello che un tempo capeggiava la lista degli “stati canaglia”. Ed è interessante scoprire perché credono nelle sue capacità di negoziatore. Si tratta di una percentuale doppia rispetto a quella, nello stesso elettorato, che approvava l’idea di un negoziato diretto con l’Iran condotto dall’amministrazione Obama. Allora era intorno al 40 per cento, oggi intorno all’85, secondo il Pew Research Center.

SICCHÉ POTENDO camminare agilmente sul terreno – l’unico che conti per Trump e che gli sia davvero congeniale – quello dell’approvazione del suo elettorato, il presidente apre la partita coreana e contemporaneamente si tira fuori da quella iraniana, spostando definitivamente l’asse strategico della Casa Bianca verso il quadrante estremo-orientale. Lo fa lasciandosi alle spalle le macerie di un Medio Oriente in fiamme e di fatto delegando agli alleati regionali – Israele, Arabia Saudita ed Egitto – il compito di completare il lavoro di demolizione avviato dalla dinastia Bush.

Nel far questo, assegna a Israele un compito e uno status ancora maggiore di quello finora riconosciutogli come alleato storico e amico indiscusso. Spostando l’ambasciata a Gerusalemme, conferisce allo stato ebraico una condizione politica e quasi giuridica di membro della comunità americana, alla stregua di nuovo stato dell’Unione. E “appalta” a Israele e agli alleati sunniti la missione di contenere l’Iran, anche con un conflitto diretto con Teheran.

D’ALTRA PARTE, il Medio Oriente, Golfo compreso, è andato perdendo la centralità che aveva quando il petrolio era la materia prima strategica per eccellenza. In quella regione poi, le guerre convenzionali non sembrano portare a una conclusione ma producono altre guerre. La vera novità strategica sarebbe un Iran dotato di armi nucleari in grado di fronteggiare l’unica potenza nucleare della regione che è Israele. Lasciando l’area, l’America garantisce a Israele e alle potenze sunnite che questo sbilanciamento sfavorevole agli sciiti perdurerà anche in futuro, grazie alla cancellazione dell’Irandeal e ai poteri “speciali” d’intervento contro Teheran assegnati allo stato ebraico. Resta l’incognita maggiore, che è la Russia, ormai stabilmente presente nella regione. E che però sta pagando un prezzo sempre più elevato e insostenibile, come conseguenza della strategia di “dissanguamento” portata avanti dall’Occidente nei confronti del suo ruolo al fianco della Siria e dell’Iran.

L’AMERICA, DISINVESTENDO in Medio Oriente, potrà così concentrare le sue risorse in un’area dove le potenze nucleari sono già quattro – cinque contando la Russia asiatica – e nella quale c’è il massimo di popolazione e di produzione di beni al mondo e dove pertanto si gioca il destino anche degli Usa, superpotenza del Pacifico e un tempo soprattutto atlantica.
I muscoli contano, anche in Oriente, ma ancor di più conta la capacità di giocare a scacchi e, in questa capacità, l’abilità anche di chi meglio e prima sa dividere il fronte avversario. Come sulla questione coreana.

Che sarà dirimente per capire che effetti avrà la sua soluzione (o non soluzione) nella confrontation Usa-Cina e nella costruzione di un nuovo ordine regionale (e dunque mondiale).