Martedì è stato il giorno in cui Donald Trump, durante il quarto super Tuesday di questa tornata elettorale, ha vinto cinque stati su cinque diventando sempre più inarrestabile, il giorno seguente ha tenuto l’atteso discorso con cui, dal Mayflower hotel di Washington, poco lontano dalla Casa Bianca, ha illustrato il suo programma per la politica estera.

Il discorso doveva essere il tentativo di mostrare un Trump presidenziale e di approfondire al di là degli slogan una parte del programma. Il tentativo non può dirsi riuscito.

Nonostante non stesse andando, a braccio, come spesso fa, la maggior parte dei commentatori non ha riscontrato la chiarezza che si cerca da un candidato alla presidenza americana.

Durante lo stesso discorso Trump ha esaltato la necessità della durezza militare ed espansionistica, ma ha lamentato il costo delle guerre; ha strepitato sullo sradicare i nemici, ma poi ha assegnato il primato alla diplomazia e all’importanza di «prudenza e moderazione». Ha presentato gli Stati uniti come una «nazione umanitaria», ma ha suggerito che non vi è alcuna necessità di distinguere tra rifugiati e infiltrati terroristici.

Nel dettaglio Donald Trump ha criticato sia Bush (colpevole dell’inutile invasione dell’Iraq), che Obama (che ha consentito l’ascesa di Isis) e ha parlato di una grande espansione e rafforzamento dell’esercito americano al fine di riguadagnare il rispetto del mondo ma distaccandosi dall’interventismo in quanto l’America deve pensare innanzitutto a se.

Ha parlato di alleati passivi e della necessità di rivedere gli accordi e anche della possibilità di uscire da alcune organizzazioni internazionali, ad esempio la Nato. «Hanno goduto dell’ombrello di difesa garantito dagli Stati uniti – ha detto parlando degli alleati – ma non hanno dato il giusto contributo. Devono pagare il costo di questa difesa. Se non lo fanno li abbandoneremo a loro stessi, non abbiamo scelta».

Grande assente nel discorso di Trump, la Siria, sulla quale non si è espresso, come se la risoluzione del problema siriano non fosse un problema americano o collegato al terrorismo internazionale.

Riguardo all’Isis l’opinione risolutoria di Trump è che bisogna rendersi imprevedibili per spiazzarli, questo, però, trasmettendo a tutto il resto del mondo un’immagine di stabilità.

Il termine più ricorrente è stato «rispetto»: i cubani non hanno mostrato rispetto verso l’air force one non presentandosi ufficialmente ad accogliere Obama, il mondo non rispetta gli Stati uniti, la Cina non rispetta gli Stati uniti in quanto «La Cina rispetta la forza, ma gli Stati uniti hanno perso il rispetto cinese lasciando che approfittasse di noi».

Diverso il discorso per la Russia con la quale ci sono differenze sì, ma superabili, e con cui bisogna lavorare.

Uno degli attacchi più forti a Obama è stato fatto riguardo Israele, che Obama avrebbe bistrattato, mentre nel programma di Trump la difesa di Israele è argomento centrale.

Nella politica estera secondo Trump bisogna porre rimedio all’inettitudine di Obama verso gli attacchi contro i cristiani, Obama, inoltre, non ha fatto niente di fronte alla Nord Corea che arricchiva il proprio arsenale nucleare, mentre «l’arsenale nucleare americano ha disperatamente bisogno di essere modernizzato e rinnovato».

E stato il discorso di un padre padrone che vuole guadagnarsi il rispetto degli altri attraverso il timore, mostrando i muscoli di un esercito potentissimo, la versione Stato del familiare «guarda che le prendi».

Su i veri contenuti, però, poco e niente, il famoso muro da innalzare tra gli Stati uniti e il Messico per arginare un incontenibile e pericolosissimo flusso di clandestini (che esiste per lo più solo nella sua mente), scomparso, su questo non ha speso nemmeno una parola.

«Bisogna sostituire la casualità con lo scopo, l’ideologia con la strategia, e il caos con la pace», ha detto Trump, ma il Washington Post fa notare come questo possa essere difficile se il modo in cui si vuole affrontare il più grosso scoglio, la lotta all’Isis, è presentandosi come degli imprevedibili.